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Nascere senza bisogno di una madre

Nascere senza bisogno di una madre

Scienziati israeliani sono riusciti a far sviluppare centinaia di embrioni di topo in uteri artificiali, fino a uno stadio avanzato. Negli esseri umani, questa tecnica offrirà maggiori speranze di vita ai prematuri. Ma è destinata a riplasmare in maniera radicale il concetto di gravidanza. E il modo in cui si viene al mondo.


Sorprende la velocità con la quale la nostra società si avvicina a quella descritta nei romanzi di fantascienza del secolo scorso. E forse spaventa pure, dato che nei nuovi mondi preconizzati da scrittori come Aldous Huxley o George Orwell le tecnologie erano usate in maniera disumanizzante.

In una delle stanze spettrali del Centro di incubazione e di condizionatura, descritte nel romanzo Il mondo nuovo di Huxley, 300 fecondatori in camice bianco, chini sui loro strumenti, controllavano lo sviluppo di anonimi embrioni umani in provette numerate. Quella maternità artificiale immaginata dallo scrittore, quella nascita senza madre, quella immacolata concezione, quella riproduzione senza gravidanza, e si potrebbe continuare con le definizioni, è oggi a portata di mano a giudicare dalle recenti ricerche sullo sviluppo embrionale dei feti animali in uteri artificiali.

Come per tutte le nuove tecnologie con le quali l’uomo plasma e riplasma la sua stessa natura, non mancano le possibilità che un loro uso avveduto possa migliorare la condizione umana. Ricercatori del laboratorio di Jacob Hannah al Weizmann Institute of Science, in Israele, uno dei centri di ricerca più importanti al mondo, sono riusciti a far sviluppare centinaia di embrioni di topo in uteri artificiali fino a uno stadio equivalente alla metà del normale periodo della gravidanza di questi roditori.

«Dall’utero delle femmine di topo abbiamo ricavato uova appena fertilizzate, le abbiamo tenute in condizioni statiche per due o tre giorni, poi le abbiamo trasferite in una speciale ampolla da noi realizzata che faceva da incubatore» racconta Hannah. «Alla fine siamo riusciti a portare l’embrione fino all’undicesimo giorno, più della metà del tempo che sarebbe necessario alla femmina di topo per ultimare la gravidanza. Se mi chiede perché questo risultato è importante, non ho dubbi nel dire che questa è la prima volta che si ottiene lo sviluppo di un embrione di mammifero fino alla formazione completa degli organi in coltura. Ora sappiamo che, in condizioni giuste, le proprietà di auto-organizzazione degli embrioni vengono preservate fuori dall’utero. E abbiamo anche strumenti e conoscenze necessarie per far sviluppare gli embrioni fino allo stadio finale, quello della nascita».

A colpire è il grande salto in avanti compiuto rispetto alle ricerche precedenti. «La maggior parte degli scienziati riteneva impossibile far crescere embrioni post-impianto per più di 1-2 giorni. Ecco perché non ci hanno provato davvero come abbiamo fatto noi» dice Hannah. «Ora, è naturale chiedersi se questa ricerca potrà essere estesa agli embrioni umani. Lasciamo per un attimo da parte i problemi etici… bhe, con le stesse condizioni che abbiamo creato e con gli stessi metodi, perché no? È molto probabile che funzioni anche negli esseri umani. Tra l’altro, il mezzo che abbiamo usato per far crescere gli embrioni contiene proprio siero umano e quindi si adatta al caso nostro. Il punto è che ora possediamo la metodologia e gli strumenti per manipolare questi embrioni, introdurre “perturbazioni”, osservarne le conseguenze ex utero, e sappiamo riprodurre la fase più critica della gestazione».

Al termine del processo, il cuore di quegli embrioni di topo batteva 170 colpi al minuto. Hannah e i suoi colleghi si sono fermati perché i nutrienti nella soluzione non erano più sufficienti. Ma il prossimo passo sarà creare un condotto artificiale di sangue connesso all’embrione: «Questa volta andremo dal giorno 0 al giorno 13, e sperimenteremo anche la possibilità di partire da embrioni artificiali costituiti a partire da staminali».

Nei laboratori del Children’s Hospital di Philadelphia la ricerca si è invece concentrata sugli agnelli. Questi animali sono il modello ideale per le ricerche sulla gravidanza umana: i feti hanno dimensioni comparabili ai nostri e il periodo di gestazione della pecora è abbastanza lungo. Il primo risultato di grande successo degli americani è stato pubblicato su Nature Communications nel 2017 ed è sostanzialmente consistito nello sviluppo di quattro modelli di biosacca che hanno ospitato feti di agnello prelevati dagli uteri delle madri a uno stadio corrispondente alle 23 settimane negli umani.

Le motivazioni che spingono scienziati come Hannah a studiare il processo embrionale fuori dall’utero materno sono dettate dalle migliori intenzioni. Secondo dati della Women & Infants Research Foundation, nascere prematuramente è la prima causa di morte e disabilità per i bambini minori di cinque anni che vivono nei Paesi più ricchi. È vero che negli ultimi venti anni c’è stata una crescita di circa il 40 per cento del numero di bimbi nati prima delle 24 settimane che sono riusciti a sopravvivere, ma è rimasto invariato il numero di prematuri che per tutta la vita soffriranno di malattie croniche o disabilità.

Capire di più il misterioso processo di gestazione studiandolo dal vivo, e soprattutto avere la possibilità di continuare la gravidanza ex utero in caso di parto prematuro, significa combattere disabilità e sofferenza. Tuttavia, la possibilità concreta di una gestazione in uteri artificiali apre questioni di difficile soluzione. La divulgatrice scientifica inglese Jenny Kleeman ha osservato che in alcuni Paesi il limite temporale per l’aborto è stabilito a 24 settimane.

La ragione è che, dato per assodato il diritto della donna di disporre del proprio corpo, si presuppone che prima di questa data il feto non potrebbe comunque sopravvivere. La possibilità di una gestazione fuori dall’utero cambierebbe la questione. Se una donna decidesse di abortire si porrebbe il problema che il feto potrebbe essere salvato – e ne avrebbe il diritto – con una gestazione fuori dal corpo materno.

Un altro aspetto decisivo è che la possibilità di una gestazione completa di embrioni umani da zero fino alla nascita potrebbe liberare la donna dal peso biologico della gravidanza, riplasmando la differenza dei ruoli di genere. Emergerebbe l’opportunità per le giovani in carriera, che non vogliono rimandare a dopo la maternità, di avere un figlio fuori dal proprio grembo disponendo appieno del loro corpo. Un po’ come sta già avvenendo, in parte, con il fenomeno dell’utero in affitto, in cui donne che non possono o non vogliono affrontare una gravidanza, o coppie gay, si rivolgono a volontarie che, per nove mesi e a pagamento, «offrono» il loro utero e, alla fine, consegnano il neonato.

Dalle modelle alle sportive, molte donne forse sentirebbero l’esigenza di utilizzare uteri artificiali. Si aprirebbero questioni controverse: la gravidanza naturale, con il disagio, il dolore e i rischi eventuali che porta con sé, è necessaria per rinforzare quel portentoso legame madre-figlio/a? A chi direbbe sì, altri risponderebbero che non lo è. Con questo argomento: se non serve a un uomo per essere un buon padre, perché dovrebbe esserlo per la madre?

Infine, anche il concetto di nascita verrebbe riplasmato: non sarebbe più un venire al mondo, un dividersi dal corpo materno, ma un essere separati da un organo artificiale. Il momento cruciale della vita si sposterebbe all’indietro, fino all’attimo del concepimento, che potrebbe avvenire nella provetta. Come accadeva nelle sale di fecondazione raccontate da Huxley, dove sotto una luce «gelida, morta e fantomatica», il lieve ronzio delle macchine a fare da sottofondo, crescevano i futuri esseri umani. A quella descrizione faceva contrasto quanto accadeva fuori: «Nudi nel caldo sole di giugno, i bambini correvano con stridule grida sull’erba o giocavano a palla. Le rose erano sbocciate e due usignoli eseguivano i loro soliloqui tra le fronde. L’aria era sonnolenta del brusio delle api e degli elicotteri».

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