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Il grande freddo del Sudafrica

Il  grande  freddo  del Sudafrica

Il Paese più sviluppato, ma anche ad altissima conflittualità del continente, è in bilico tra crisi economica e delegittimazione politica. In attesa che nel 2024 le elezioni decidano il suo futuro.


Mentre atterrano i boeing carichi di entusiasti vacanzieri dell’emisfero boreale, il Sudafrica nel pieno inverno del suo scontento apparecchia perfino le cime più basse con una neve che così non si vedeva da decenni, uno spettacolo straordinario che allieta chi ha una casa calda in cui tornare; per tutti gli altri, la stragrande maggioranza che vive in povertà, è solo l’ennesima fonte di esasperazione rabbiosa resa bene da un termine afrikaans: gatvol. Si è «gatvol», frustrati per tutto, nella Nazione arcobaleno che a dicembre commemora il decimo anniversario della scomparsa dell’amato leader, Nelson Mandela. Si è gatvol per la disoccupazione al 33 per cento e per i salari bassi anche dopo l’aumento del minimo a un euro e 25 l’ora; si è gatvol per la pessima condizione delle scuole, delle università e degli ospedali pubblici; per l’insicurezza crescente, la violenza su donne e bambini, la corruzione, la carenza d’acqua potabile ed energia come in un qualsiasi Stato povero. È una miccia pronta a divampare in un Paese in bilico, soprattutto se c’è qualcuno che questo malessere lo cavalca con l’idea di trarne vantaggio, per esempio alle elezioni dell’anno prossimo.

L’ennesima protesta è scoppiata la sera di giovedì 3 agosto, quando a Città del Capo si sono fermati i taxi collettivi, un nugolo di minivan guidati da neri che sfrecciano sovraccarichi di lavoratori poveri, anch’essi neri: così pericolosi che il sindaco ne ha deciso il sequestro al posto delle multe bellamente ignorate. Dopo aver lasciato a terra, al buio e al freddo, migliaia di persone disperate, lo sciopero è trasceso in guerriglia che ha bloccato le strade e illuminato le notti con le fiamme date ad auto della polizia, autobus pubblici e addirittura ambulanze. Ristoranti chiusi, aziende a singhiozzo, scuole semivuote, ospedali funzionanti solo per le emergenze; lavoratori e datori di lavoro come sempre a provare a fare del loro meglio, «ubuntu!». A farne di più le spese sono come sempre i neri poveri affastellati nelle immense township, le città satellite nate durante l’apartheid e poi ingrossate a dismisura dai flussi migratori interni e dei paesi vicini. Quando gli elefanti combattono, dice un proverbio africano, l’erba rimane schiacciata.

Gli elefanti sono impegnati nella lotta di potere. La distesa d’erba è un popolo pacifico e unito nelle differenze, com’è stato dalla liberazione. Ma l’anno prossimo si vota, a 30 anni esatti dalle prime elezioni democratiche che con un plebiscito incoronarono Nelson Rolihlahla Mandela: il primo presidente nero evitò la guerra civile quando la vendetta sulla minoranza bianca pareva inevitabile. Un trentennio dopo, il Paese rimane segnato dalle disuguaglianze e la questione razziale è cenere viva alimentata con maestria. Le proteste dei tassisti capetoniani, per esempio, son diventate subito occasione di battaglia contro il partito del sindaco, la Da, considerato espressione del potere bianco nonostante l’avvicendarsi di leadership nere e colored. La Democratic alliance è la principale forza di opposizione all’Anc. In realtà, African national congress e alleanza democratica sanno dialogare e hanno anche costruito coalizioni su base locale come a Johannesburg.

Ma a soffiare sul fuoco c’è il 42enne Julius Malema che dieci anni fa fondò l’Eff, Economic freedom fighters: l’avevano cacciato dall’Anc per via dei suoi eccessi, non ultimo il vizio di intonare «Kill the Boer», uccidi il bianco. Un inno messo al bando e lui ha cantato di nuovo a luglio, alla monumentale festa di compleanno del suo partito marxista-leninista-panafricanista, in uno stadio pieno di «combattenti per la libertà economica», militanti e parlamentari perennemente vestiti di rosso, con una tuta da lavoro e un baschetto alla Che Guevara. «Mussolini o Madonna? Dittatore in erba o genio dello showbusiness?» ha invece titolato News24.com, tra i più autorevoli media sudafricani.

Elon Musk, nato e cresciuto a Pretoria, lo ha accusato di incitamento alla violenza contro i bianchi. Ma Malema – che ha un consenso dell’11 per cento, 53 deputati e un incontrastato appeal sulla massa di diseredati – punta a diventare ago della bilancia e a rovesciare l’agenda di governo. E con essa il destino del Paese. Il Sudafrica, moderno e industrializzato, per ora mantiene un profilo alto nel consesso globale: l’attuale presidente, Cyril Ramaphosa, cresciuto al fianco di Mandela, vanta forte prestigio sui mercati internazionali ma neppure lui è riuscito a frenare la crisi morale ed economica interna. Sa barcamenarsi tra Occidente e «non Occidente» ma il vertice dei Paesi Brics – Brasile, Russia, India, Cina e appunto Sudafrica – svoltosi a Johannesburg a fine agosto, e l’equidistanza sulla guerra in Ucraina, lo hanno messo a dura prova: non potendo negare l’ingresso a Putin – «se lo arrestassi, sarebbe una dichiarazione di guerra» – alla fine ha ottenuto che al suo posto venisse il ministro degli Esteri Sergej Lavrov.

Malema ha colto l’occasione per chiedere a Cina e India di disertare, in solidarietà col capo del Cremlino. Invece non solo Modi e Xi Jinping hanno confermato la presenza, ma tra gli invitati di Ramaphosa spiccano i presidenti di ispirazione socialista, qualunque cosa ormai voglia dire, di una serie di Stati africani e sudamericani, utili per pesare e ridefinire gli schieramenti sullo scacchiere geopolitico. «Il Sudafrica è partner strategico degli Stati Uniti» ha detto Joe Biden. Il presidente americano però deve recuperare l’assenza di una strategia sull’Africa, rincorrendo la Cina: Pechino, tanto per dire, a inizio agosto ha ricevuto il primo grosso carico di mais sudafricano e ha offerto aiuto a Ramaphosa nella sua missione impossibile sul fronte energetico.

È infatti sulla decennale saga dei blackout giornalieri che l’Anc rischia la più grossa sconfitta della sua storia: famiglie e imprese costrette a cambiare modi di vivere e di lavorare in base alle rigide griglie del «load-shedding», il distacco di carico che può durare anche 12 ore. Colpa delle infrastrutture decrepite e inadeguate al Paese più industrializzato del continente, che ha tutto elettrico, pure i fornelli di case e ristoranti: all’inizio sì reagì col solito ottimismo e si accesero candele e si cambiarono menù, poi chi ha potuto si è dovuto comprare un generatore, ormai bene di consumo in vendita in ogni supermercato. Eskom, l’azienda energetica pubblica una volta all’avanguardia a livello mondiale, è diventata un carrozzone per effetto di un’«emorragia di competenze tecniche e finanziarie, crollo delle istituzioni, corruzione», parole del neo ministro dell’Elettricità, Kgosientsho Ramokgopa, ingegnere e politico.

Negli stessi giorni della sua nomina, però, André de Ruyter veniva cacciato dalla guida di Eskom per aver denunciato pubblicamente il coinvolgimento di politici e sindacati nel «sistematico saccheggio di risorse pubbliche». De Ruyter è uno dei sudafricani che alla fine se ne è andato all’estero ed è appena stato assunto all’Università di Yale. L’anno scorso sono scappati 400 alti redditi ai quali se ne aggiungeranno quest’anno altri 500: chi può fugge perché anche per i bianchi e per la classe media le cose sono peggiorate. Negli ultimi cinque anni sono spariti 40 mila contribuenti. Un colpo letale alle casse pubbliche, visto che su quasi 70 milioni di abitanti solo il 10 per cento paga le tasse. Il 47 per cento invece vive grazie ad assegni pubblici mensili. In questa incertezza, economica e politica, il rand vale sempre meno: da maggio 2013 ha perso il 73 per cento sull’euro. I prezzi interni invece volano: l’inflazione è all’11 per cento sui redditi più bassi, al 6 per i super ricchi. Per l’estate uno dei maggiori esperti di clima, Tafadzwa Mabhaudhi, ha preannunciato un caldo record: il che vuol dire ancora crisi energetica e crisi idrica. Ma la peggiore delle crisi è quella educativa: più della metà della popolazione sudafricana ha meno di 30 anni e il 44 per cento dei bambini vive solo con la madre, il 20 per cento senza un adulto. Otto bambini su dieci sotto i 10 anni non sanno leggere e la principale causa è il basso livello degli insegnanti stessi, reclutati per clientele. Sono dati del governo. La metà degli alunni abbandona la scuola senza averla finita. Il 64 per cento dei giovani tra i 15 e i 25 anni è disoccupato. Per Mandela l’istruzione è sempre stata «l’arma più importante per cambiare il mondo», ma con questi numeri il futuro del Sudafrica sembra purtroppo scritto e scritto pure male.

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