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Socialisti stile Craxi

Socialisti stile Craxi

LE SERIE STORICHE DI PANORAMA

  1. Pochi mesi dopo l’arrivo di Craxi a Palazzo Chigi, il professor Giorgio Galli si chiese se il partito stesse subendo una mutazione rispetto al vecchio Psi di Francesco De Martino. E concluse dicendo che, pur essendo molto cambiata, la formazione rimaneva progressista.
    Articolo pubblicato il 21/05/1984
  2. Dopo la boutade contro gli intellettuali sparata dal premier il 6 novembre 1985, Filippo Ceccarelli scoprì che dietro il suo linguaggio politico c’era Mario Medici, professore di Sintassi e stilistica della lingua italiana all’università di Roma.
    Articolo pubblicato il 01/12/1985



La domanda principale che ci si è posta sul Psi tra il congresso di Palermo (1981) e quello di Verona, è se il partito abbia subito quella che viene definita una «mutazione». Se cioè l’evoluzione durante la segreteria Craxi non sia stata tale da modificare la natura del partito come parte prima esclusiva e poi integrante della sinistra italiana dal 1892 (fondazione del partito) a oggi.

Questa questione di fondo si è intrecciata, negli ultimi mesi e nelle ultime settimane, con il problema del carattere che assume la presidenza del Consiglio socialista prima con il decreto di San Valentino e poi con la proposta su una sorta di moratoria missilistica. I termini di quest’ultimo problema possono risultare più chiari se viene bene impostata la questione primaria, quella della «mutazione».

La mia opinione è che il Psi si sia notevolmente modificato, nel tipo di iscritti, nella classe politica che seleziona, nell’elettorato, nello stile politico; ma che non abbia subito una “mutazione”. Se si tiene conto di questi quattro elementi nel loro insieme, essi configurano un partito che certamente si è spostato più verso il “centro” del vecchio Psi di De Martino, ma che conserva tratti di sinistra.

In primo luogo quello di contestazione del potere della Dc che è più evidente che non negli anni del primo centro sinistra. Questa valutazione muove dalla individuazione della Dc come il fondamentale polo conservatore del sistema. In essa sono presenti componenti popolari (e anche populiste), che del resto non mancano in nessuno dei grandi partiti moderati dell’esperienza occidentale. Ma la Dc è e rimane il punto di riferimento di chi in Italia non vuole cambiamento. Che poi questa resistenza conservatrice al cambiamento nel senso del progressismo occidentale comporti trasformazioni sgradevoli (dalla creazione del capitalismo assistenziale al proliferare dei poteri occulti), è altro e diverso problema.


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Certamente sul tronco della vecchia tradizione di sinistra il Psi ha innestato elementi nuovi e per lo più criticati. La contestazione della Dc si è tradotta nella richiesta di più ampie sfere di potere per contrastarne il predominio. I più numerosi posti a disposizione hanno attratto al partito una sorta di neoborghesia arrembante, che ha modificato l’antico personale politico socialista. Il tipo di iscritti e di classe politica del Psi di oggi è in parte la conseguenza di questo processo.

Questa tendenza ha fatto sì che il gruppo dirigente organizzatosi attorno a Craxi, a partire dal leader, ha adottato uno stile politico che, partendo dalla necessità di rinnovare schemi ormai logori della vecchia sinistra, ha adottato in parte quelli della cultura moderata, egemone in questi anni in Occidente: al declino della classe operaia corrisponde l’ascesa di nuovi ceti emergenti del
sistema post-industriale; occorre tenere conto dell’evoluzione della società tecnotronica, per cui al governo come mediazione tra interessi va sostituito il governo in grado di effettuare scelte prioritarie; il partito è la macchina che organizza il consenso per un programma di governo basato su tali scelte prioritarie.

Nelle tesi congressuali questa è l’impostazione: “Emergono due nuovi indirizzi: il neoliberalismo e il neointerventismo. Il neoliberalismo ha dato pessima prova di sé in Gran Bretagna ed è ancor meno proponibile in Italia data la fragilità dell’apparato produttivo. Il Psi sollecita il sindacato a proporsi come forza di rinnovamento attraverso l’acquisizione di un potere effettivo di gestione delle scelte di politica economica”. È su questa base che si è determinata la convergenza con Carniti e il gruppo di intellettuali che attorno a lui propugnano la tesi dello “scambio politico” (moderazione salariale in cambio di potere gestionale). Iscritti, personale e stile politico del Psi appaiono dunque l’espressione di una coesistenza di aspirazioni all’autonomia sociale (come reazione al panpoliticismo della sinistra tradizionale) con la perdurante tendenza al neointerventismo, inteso come
acquisizione di potere mediante la presenza nella sfera politica.

Come risponde l’elettorato a questa evoluzione? Abbiamo la risposta fornita da una ampia ricerca realizzata da Guido Martinotti in collaborazione col Psi e in parte pubblicata da Socialismo oggi in occasione del congresso. Con tutte le cautele suggerite da
ricerche di tipo ecologico (si mettano in relazione i voti con aree geografiche in rapporti al reddito), mi pare si possa dire che la risposta è diversa da quella che il vertice socialista si attende: il Psi ottiene maggiori consensi nelle aree più arretrate, ne perde in quelle più avanzate.

Queste premesse – compresa la recente inchiesta di Chiara Valentini due settimane fa su Panorama – chiariscono le recenti vicende. Il Psi tende ad acquisire nuovo elettorato moderato, ma senza perdere quello tradizionale, in senso lato progressista. È vero che il decreto di S. Valentino segna uno spostamento sulle posizioni della Dc di un anno fa, ma è stato adottato con
un’intesa con la Cisl di Carniti. E, al di là dei problemi oggettivi della Nato, la proposta di Craxi di una sorta di moratoria nella installazione dei missili appare gradita all’elettorato progressista. Dunque il Psi non si sposta tutto sul versante moderato, ma tende ad aggiungere consensi moderati a quelli tradizionali: blocca la scala mobile, ma guarda all’area dei lavoratori della Cisl; colloca i missili, ma tenta di limitarne il numero. È una strategia difficile, che può risultare ambigua. Forse è la premessa di una “mutazione” che per ora mi sembra solo ipotizzata.


Lo spin doctor (glottologo) di Craxi

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Lo spin doctor (glottologo) di Craxi

«Intellettuale dei miei stivali»: già replicando a Montecitorio, la mattina di mercoledi 6 novembre, Bettino Craxi era sicuro che quella definizione non sarebbe davvero passata inosservata. Alcuni avrebbero sicuramente tirato in ballo Mario Scelba e la polemica sul «culturame», altri, ed era ciò che più lo angustiava, il periodo mussoliniano, l’epoca degli stivaloni, insomma una tipica simbologia fascista.

Perciò fin dall’inizio aveva cercato di prevenire il colpo. «Gli stivali di chi?» lo aveva interrotto speranzoso il missino Mirko Tremaglia. «È un vecchio modo di dire, non ancora cancellato, che credo risalga a qualche secolo addietro» era stata la risposta del presidente del Consiglio. Solo un’intuizione però, quella di Craxi: l’assunto rimaneva tutto da dimostrare, ma il leader socialista voleva a tutti i costi andare fino in fondo su questa benedetta storia degli stivali, origine, genesi e nobiltà filologica. Una questione di linguaggio, certo, ma anche un delicato problema di immagine in una fase politica piuttosto calda.

Che fare? Craxi pensò immediatamente a uno studioso, a una specie di consigliere personale che vive fuori dal Palazzo. Una telefonata da palazzo Chigi, e subito il glottologo di fiducia venne messo in azione. Senza neppure uscire dal suo studio tappezzato di libri, Mario Medici, professore di sintassi e stilistica della lingua italiana all’università di Roma, uno dei più importanti lessicografi dell’Enciclopedia Treccani, da anni alle prese con il linguaggio politico di Bettino Craxi, mise mano agli strumenti del mestiere.

Per primo consultò, alla voce «stivali», il Giorgini Broglio, «novo vocabolario della lingua italiana», una specie di Bibbia per linguisti, ed ebbe la significativa conferma che l’ espressione, oltre a essere in uso almeno dall’ultimo trentennio del secolo scorso, aveva una base toscana. Bene, il più era fatto, ma occorreva a quel punto qualche riferimento letterario. Un aiuto decisivo venne, in fretta e furia, da Nicolò Tommaseo, compilatore, tra il 1858 e il 1879, del dizionario della lingua italiana per antonomasia. «Stivale» lesse dapprima Medici «vale minchione».

Poi, finalmente, trovò l’esempio che stava tanto a cuore a Bettino Craxi. Vissuto a Firenze dal 1606 al 1665, il pittore Lorenzo Lippi, forse parente del più famoso Filippo, è autore con lo pseudonimo anagrammato di Perlon Zipoli, di un poema eroicomico, Il malmantile riacquistato, uscito postumo nel 1666.

Della discussa espressione scelta da Craxi, Zipoli-Lippi fa infatti grande uso, soprattutto nel canto IV: «Dottor de’ miei stivali», «professor de’ miei stivali», «dipintor de’ miei stivali». No, concluse rassicurato Medici, il fascismo non c’entra niente. Sempre nella bolgia dell’aula di Montecitorio, nello stesso discorso degli stivali, Craxi aveva risposto a molte interruzioni provenienti dai banchi dell’estrema destra. Ma non aveva immaginato, però, che il modo e la forma lessicale della sua reazione avrebbero, di lì a qualche giorno, suscitato le ire del commentatore del Giornale nuovo Domenico Bartoli: «Ho ascoltato con le mie oreccnie» scriveva Bartoli domenica 10 «che il presidente del Consiglio, sovrapponendosi alla presidenza dell’assemblea, si è rivolto a un collega e gli ha detto: “Piantala, lasciami parlare”. “Piantarla», nel senso di “smetterla”, è registrata come voce regionale, cioè dialettale».

E ancora una volta il professor Medici venne chiamato a consulto da palazzo Chigi. Osservando attentamente i resoconti stenografici, però, si accorse che in realtà la risposta di Craxi all’interruzione era riportata come «Ma smettila, lasciami parlare» e che probabilmente Bartoli aveva capito male. Medici non rinunciò comunque al suo compito: diligentemente preparò una seconda noticina destinata a finire sul tavolo del presidente del Consiglio sostenendo prima di tutto che quel «ma», spuntato fuori provvidenzialmente, andava inteso in quel caso come particella interietiva e attenuativa, quasi a simboleggiare la colleganza, in aula, tra il deputato Craxi e il deputato che lo aveva interrotto. E poi che, tra le varie sfumature emotive della lingua parlata, «smettila» era sicuramente più leggero di «finiscila».

Forte delle ricerche del consigliere-glottologo, pochi giorni dopo, Craxi poteva mettere i puntini sugli i con una lunga lettera all’Europeo che, prendendo spunto dall’ “intellettuale dei miei stivali “, gli aveva dedicato cinque pagine non proprio benevole. Lettera in tipico stile craxiano, nota Medici, con la tradizionale tendenza alla qualificazione ironica di vecchie locuzioni (” Rimango assai poco intimorito da una levata di scudi di latta”) e ad ardite e creative comparazioni sintetiche (“Nella mia vita e nella mia famiglia nessuno ha mai portato come segno di fede stivali e camicie color carbone”). Un linguaggio, quello del leader socialista, che Medici, tiene sotto controllo dal 1981 con la più completa collaborazione (il leader socialista, ormai quasi quotidianamente, gli invia tutti i discorsi e le interviste da mettere al microscopio). E che dopo cinque anni di ricerche, giudica in termini entusiastici come uno dei segnali più evidenti di una nuova stagione politica.

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