Il divario territoriale tra Nord e Sud rimane la principale frattura economica e sociale dell’Italia, il gap da colmare se si vogliono conseguire livelli di crescita robusti e duraturi, tassi di occupazione in linea con la media europea, coesione sociale più forte. Obiettivi sempre auspicati ma mai realizzati. Priorità per ogni Governo ma fallimenti di ogni maggioranza politica.
I dati economici del Sud sono ancora oggi impietosi, e questo nonostante un triennio di crescita (2015-2018) anche superiore al Centro-Nord per qualche periodo. Un’occasione sprecata perché le scelte di politica economica di quegli anni non l’hanno sostenuta. Cito solo quelli relativi al divario occupazionale: il tasso di occupazione è largamente sotto il 50% e circa 20 punti sotto la media del Centro-Nord (che, senza il Sud, sarebbe oltre i livelli medi dell’Unione Europea). Il tasso di occupazione giovanile non supera il 30 per cento e quello di disoccupazione è pari al 50 per cento. Se analizziamo questo dato relativamente alle donne i dati sono ancora più impressionanti perché disegnano un divario ancora più importante.
Secondo alcune stime, nel Sud mancano circa 3 milioni di occupati per raggiungere i livelli del Centro-Nord e questa «distanza occupazionale» investe tutte le regioni del Mezzogiorno, nessuna esclusa. Il che deve fare riflettere anche coloro che sostengono che la geografia del Sud è estremamente variegata. Una condizione del mercato del lavoro così grave aumenta il rischio di povertà, di esclusione sociale, di sommerso, di illegalità. Indebolisce la coesione sociale, la tenuta istituzionale, la capacità amministrativa dello Stato. E tutto ciò non può essere risolto con assistenza e utilizzo inefficiente delle risorse comunitarie.
Nei giorni scorsi il Governo ha proposto un piano decennale per la crescita del Sud, tutto centrato sull’utilizzo massiccio dei fondi comunitari, quali volano per lo sviluppo. Un obiettivo importante, una strategia pluriennale certamente da cogliere. Tuttavia, una fotocopia, aggiornata e ispirata dal Green New Deal e dall’Agenda sostenibile 2030, di quello che si fa dagli anni Novanta. Con risultati però che sono stati largamente inferiori alle attese. Per questo forse sarebbe stato opportuno riflettere ancora un poco e immaginare un radicale cambio di strategia. Cogliere l’attenta analisi che da molti anni propone la Svimez (e il numero del settembre del 2018 della rivista leSfide della Fondazione Craxi) per proporre una agenda diversa imperniata su alcuni semplici punti e su ridotti strumenti di intervento.
Dobbiamo, anzitutto, riconoscere che il vincolo europeo della disciplina di bilancio si è rivelato troppo stretto per il Mezzogiorno e che l’Italia non ha saputo interpretare le esigenze del Sud a Bruxelles, rivendicando la specificità sociale ed economica del territorio meridionale. Oggi la leva fondamentale per fare crescere il Sud è una forte politica di investimento, con un mix di pubblico e privato, attraendo imprese e capitali privati anche dall’estero. Ciò si deve fare costituendo una nuova struttura finanziaria che sia l’equivalente della Cassa per il Mezzogiorno 4.0.
Uno strumento capace di programmare, aiutare l’investimento, irrobustire la struttura produttiva. Non possiamo più attendere. In secondo luogo, occorre un grande choc fiscale. Le Zes (Zone econ0omiche speciali, ndr) sono strumenti certamente auspicabili, ma incidono su porzioni del territorio e non su tutto il territorio meridionale. L’Italia, invece, ha bisogno di un regime fiscale agevolato che sia valido per tutto il Mezzogiorno, soprattutto per incentivare l’insediamento delle imprese e per costruire le infrastrutture, materiali ed immateriali.
In terzo luogo, occorre ridurre il costo del lavoro, allineare, alla partenza, produttività e salari, costruire politiche attive del lavoro che orientino la transizione scuola-lavoro, innalzino il capitale umano, facilitino anche la mobilità Sud-Nord-Sud, permettendo il rientro dei cervelli. Infine, occorre promuovere l’autonomia regionale differenziata, mettere in competizione le regioni del Sud con le regioni del Nord, spingere perché si confrontino sistemi territoriali. Questa agenda dovrebbe permettere di concentrarsi sulle imprese e sullo sviluppo economico e non sulle relazioni istituzionali, con l’obiettivo di prendere risorse finanziarie.
Nel Mezzogiorno è in corso un cambiamento di classe politica. L’auspicio è che sappia prendere strade importanti e assumere sfide coraggiose, staccandosi da gestioni temporanee e da una «navigazione sottocosta». Nel Sud occorre creare più lavoro, vedere giovani occupati, aumentare quel potenziale occupazionale che solo può permettere la crescita dell’intero Paese e il raggiungimento di livelli occupazionali in linea con i maggiori Paesi europei. D’altra parte un esempio che ciò è possibile esiste; la Germania e il suo processo di riunificazione, pure con tutti i limiti. Perché non può riuscire in Italia?
