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La lezione danese sui migranti

La lezione danese sui migranti

Mette Frederiksen, determinata socialdemocratica alla guida del Paese nordico, ha messo in atto una politica che limita i flussi di profughi e stranieri. Una strategia che gode di ampio consenso interno e che ora fa scuola anche in Stati vicini con problemi analoghi, come Svezia e Germania.


La televisione è risultata profetica in Danimarca. Nel 2010 è stata prodotta Borgen, serie tv di grande successo (anche all’estero) incentrata sulla carriera di una donna premier, e nel 2011 la socialdemocratica Helle Thorning-Schmidt è diventata la prima donna a guidare il governo. Il passaggio dalla fiction alla realtà e dall’eccezione alla norma è durato otto anni: nel 2019 un’altra donna socialdemocratica è entrata a Borgen, che in questo caso non è il nome della serie tv ma il soprannome di Palazzo Christiansborg a Copenaghen, dove hanno sede il potere esecutivo, legislativo e giudiziario danesi. Anche Mette Frederiksen ha battuto un primato: la seconda donna a guidare il governo è stata la più giovane guida della nazione, diventando premier a 41 anni nel giugno 2019.

Sul fronte del potere alle donne, il regno di Margherita II di Danimarca si è dimostrato più avanzato di quello di Carlo XVI Gustavo di Svezia. A Stoccolma la prima donna arrivata in pole position per la conquista del potere è la 54enne Magdalena Andersson, ministro delle Finanze nel gabinetto del premier (dimissionario) Stefan Löfven. Al potere dal 2014, Löfven si è dimesso il 10 novembre e Andersson, diventata leader del partito socialdemocratico svedese, lavora al nuovo governo.

Entrambe donne, scandinave e socialdemocratiche, la danese Frederiksen e la svedese Andersson sembrano avere molto in comune. Eppure i loro Paesi, da 21 anni uniti dal Ponte di Øresund che collega la capitale danese a Göteborg nel sud della Svezia, stanno attraversando fasi politiche distinte.

Frederiksen ha vinto le elezioni a giugno 2019 strappando il potere dalle mani del suo predecessore, il premier liberale Lars Løkke Rasmussen. Andersson non ha vinto le elezioni: il suo è il tentativo di recuperare consensi dopo l’umiliazione subita da Löfven, il primo premier a perdere un voto di fiducia al Riksdag, il Parlamento nazionale. «Il voto è il risultato di un’escalation seguita all’ingresso dei Democratici Svedesi (un partito nazionalista e anti-immigrati, ndr) in Parlamento nel 2010 con il conseguente indebolimento delle maggioranze di governo» spiega a Panorama Jan Teorell, docente di Scienze politiche all’Università di Stoccolma. «Quando anche i socialisti del Partito della sinistra hanno tolto l’appoggio, Löfven è caduto».

Fra le misure adottate dal suo governo si ricorda una stretta lo scorso luglio alle misure di accoglienza degli stranieri, con la trasformazione dei permessi di soggiorno da permanenti a temporanei, con durata di tre anni. «È dai tempi della crisi migratoria del 2015 che i governi svedesi hanno reso più severe le misure per l’ammissione di migranti e rifugiati nel Paese» riprende Teorell.

Lo scienziato politico sottolinea però la differenza principale con la politica della Danimarca: il partito di Frederiksen «ha impostato la propria strategia del consenso su una nuova politica migratoria capace di strappare elettori ai nazionalisti del Partito popolare».

In Svezia, al contrario, il partito di Löfven e di Andersson «si è limitato a modificare le norme adattandole alla crisi migratoria». A Stoccolma non c’è stato alcun cambio di rotta né una rottura della collaborazione con i Verdi, favorevoli all’ingresso di stranieri. Qui si vota a settembre 2022 e la politica migratoria sarà uno dei temi della campagna elettorale ma, aggiunge Teorell, «più centrale sarà la repressione della criminalità organizzata». Nello Stato del Nord Europa continua da anni una guerra fra bande per il traffico di droga: uno scontro senza fine che ha dato vita a un crescendo di esplosioni nelle città principali e a una sequela di conflitti a fuoco nelle strade. Oggi la Svezia ha il più alto tasso di sparatorie per abitanti in Europa, ricorda Teorell: «Una questione aperta, che i partiti di destra collegano alla forte presenza di immigrati all’interno delle gang criminali».

Non importa se nel 2022 vincerà la destra o la sinistra: in Svezia si registra un consenso generalizzato per un inasprimento delle pene e una presenza più incisiva delle forze dell’ordine. La differenza la farà invece il Partito di centro: «Oggi appoggia i socialdemocratici ma non è detto che sarà così alle elezioni, per il dissenso con il Partito di sinistra sui temi economici». Lo studioso spiega che se il blocco di destra formato da conservatori, liberali, cristiano democratici e la destra dei Democratici Svedesi vincerà, «per la prima volta un premier in Svezia dovrà contare sui voti dei nazionalisti; in quel caso vedremo una stretta sull’immigrazione e sulle regole per gli stranieri già nel Paese, con meno welfare e benefit e un accento maggiore sull’assimilazione».

Dall’altra parte del Ponte di Øresund, l’analisi di Teorell trova conferma nelle parole di Caroline de la Porte, docente di Economia internazionale alla Copenhagen Business School. «In Svezia i socialdemocratici tengono in considerazione le posizioni dei nazionalisti ma non hanno cambiato la propria strategia». In Danimarca non è più così: l’ingresso, vent’anni fa, del Partito popolare in Parlamento con la sua piattaforma anti-immigrati ha finito per condizionare l’intero schieramento politico. Oggi solo Verdi e Social-liberali respingono questo atteggiamento, spiega l’accademica, aggiungendo che tutti gli altri partiti «sia i socialdemocratici sia socialisti più a sinistra hanno fatto propria l’agenda anti-immigrati».

Se un ventennio fa i popolari hanno strappato voti a sinistra coniugando un atteggiamento xenofobo con politiche di attenzione al sociale e ai pensionati, alla vigilia delle ultime elezioni Mette Frederiksen ha reso la pariglia «adottando una strategia anti-immigrati allo scopo dichiarato di recuperare parte degli elettori passati anni prima tra le file dei popolari».

Solo lo scorso settembre il governo ha proposto di far lavorare gli immigrati 37 ore alla settimana in cambio di prestazioni sociali: una misura, ha detto la premier, «tagliata soprattutto sulle donne non occidentali di prima generazione, che vivono di sussidi». Ora che la linea di riduzione dei benefici e dello studio obbligatorio del danese è largamente maggioritaria «il Partito popolare ha perso slancio e voti, ed è entrato in crisi». De la Porte aggiunge poi che, a differenza di quanto accade in Svezia, in Danimarca non esiste un problema di ordine pubblico legato alla presenza straniera: «La seconda e terza generazione di immigrati sono bene integrati e i problemi che esistono sono più antichi della crisi migratoria del 2015».

In Danimarca, un Paese che ha registrato 21.300 domande di asilo nel 2015, ridotte a 2.700 nel 2019 e a 1.500 nel 2020, con il governo che punta a quota zero, «c’è una carenza di manodopera qualificata ma anche non qualificata in alcuni settori: i datori di lavoro vorrebbero più immigrati, ma il governo non intende allargare le maglie degli ingressi se non per i lavoratori qualificati» conclude de la Porte. Di più, l’esempio danese ha fatto scuola: mentre la Svezia aspetta di capire se dovrà cedere alle pressioni dei Democratici svedesi, dalla Germania Olaf Scholz, il ministro delle Finanze socialdemocratico che ha vinto le elezioni di settembre e si accinge a diventare cancelliere, ha più volte ripetuto l’antifona appresa dai compagni di partito danesi: l’immigrazione, è la nuova linea della Spd, va regolata da un sistema a punti sul modello canadese per favorire l’ingresso di lavoratori ad alto valore aggiunto.

Quanto alle domande di asilo, la Germania non si sottrae al suo ruolo umanitario, ma non può più accogliere tutti entro i suoi confini, come pretese di fare Angela Merkel fra fine 2015 e inizio 2016. Meglio aiutare profughi e sfollati nei propri Paesi o negli Stati più vicini a quello d’origine. La Germania aveva già fatto un passo in questa direzione nel 2016, chiedendo all’Ue di pagare il governo turco di Recep Tayyip Erdogan per trattenere in Turchia milioni di profughi siriani e iracheni che punterebbero dritti all’Europa. Lo scorso giugno Frederiksen ha elaborato il concetto proponendo che anche chi arriva alle porte della Danimarca per chiedere asilo venga rispedito in un Paese terzo, dove potrà vivere qualora la sua domanda di asilo sia approvata.

A caldo, la proposta è stata criticata dalla Commissione europea, ma in tema di politiche di migratorie e di accoglienza i socialdemocratici danesi non si fanno impartire lezioni da nessuno. Al contrario, a Mette Frederiksen piace dare l’esempio.

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