Da big a Gianburrasca della politica italiana, oggi Matteo Renzi ansima per il gradimento ai minimi in vista delle Europee. E manda scomposti messaggi a destra (soprattutto) e a manca.
Con la dieta a digiuno intermittente ha perso sei chili. «Occhio però, bisogna anche fare movimento. Il primo a farmi una capa tanta con questo metodo è stato Fiorello». Quella di Matteo Renzi sembra proprio un’estate dimagrante, in polo col colletto Hamptons (rialzato da gagà) e bermuda, lontano dalla bagarre e dalle sciabolate, caratterizzata dal «movimiento lento» che in politica non è mai un «movimiento sexy». Corre sul posto per non dare nell’occhio, il leader di Italia Viva; dimagrisce lui e non mette su muscoli il suo partito, sempre anemico nei dintorni del 3 per cento, vittima dello stallo del fondatore alla ricerca di un’identità, di una sponda, nell’immensa prateria del Centro ultimamente poco frequentata dagli elettori.
Il Gran Sabotatore è in affanno, vede Giorgia Meloni occupare con decisione quello spazio da destra e vorrebbe anticiparla, ma arrivare prima partendo da sinistra è sempre più complicato. Se poi ti attardi a litigare con Carlo Calenda, a querelare i giornalisti per ogni sospiro, a tenere conferenze saudite per questioni di mutuo, a dirigere giornali per hobby, l’impresa diventa improba. Una scorciatoia ci sarebbe: prendere un taxi azzurro. Forza Italia è lì, orfana di Silvio Berlusconi, in una parola che piace al Giglio Magico: «contendibile». Non per niente in queste settimane Renzi si è fatto notare per tre uscite ruggenti, tutte a destinatario unico.
La prima a difesa della memoria del Cavaliere accusato di mafiosità anche da defunto: «Reputo squallido che la procura di Firenze si preoccupi di infangare la memoria di Berlusconi ma non si occupi di garantire la legalità nella città che dai tempi dell’Istituto degli Innocenti accoglie i bambini, non li fa sparire (si riferisce al caso di Kata Alvarez, ndr) per colpa del racket dell’abusivismo». La seconda per sostenere Marina Berlusconi nella sua battaglia a protezione dell’onorabilità del padre: «Quello che sta accadendo è enorme, è mai possibile indicare Berlusconi il mandante delle stragi? La risposta di Giorgia Meloni non mi piace». La premier aveva voluto evitare la polemica, non considerando Marina «un soggetto politico della coalizione». La terza, sempre in una lettera a Il Giornale, per «rendere un servizio non solo alla storia personale di Berlusconi ma ancora prima alle istituzioni di questo Paese». Più nuove accuse alla procura fiorentina, peraltro la stessa che lo ha indagato per presunto finanziamento illecito ai partiti attraverso la fondazione Open.
Trattandosi di Renzi, il tentativo di corteggiamento di Forza Italia è evidente. Roba da posizione genuflessa e fiori in mano. Poco credibile. Nessuno dimentica quando fece saltare il patto del Nazareno per mettere al Quirinale Sergio Mattarella Primo. O quando ripeteva: «Berlusconi è un fuoriclasse nel credere alle bugie che dice». O quando, in un eccesso di entusiasmo forcaiolo, se ne uscì con lo sprezzante «Game Over» dopo l’estromissione del Cavaliere dal Senato. Poiché nel centrodestra la memoria è ferrea, lo stanno lasciando a metà del guado a rinfrescarsi i piedi.
Licia Ronzulli è finto-possibilista: «Se decide, sulla via di Damasco, di diventare forzista… Lui deve capire cosa vuol fare da grande». Antonio Tajani è chiusurista: «Non credo ci sia la possibilità di utilizzare Forza Italia per Renzi e Calenda. Sono parte di un’altra famiglia europea, sono parte di giunte di sinistra ovunque. Se poi vogliono lasciare l’opposizione per entrare in maggioranza, questa è un’altra faccenda». Il più diretto è come sempre Maurizio Gasparri: «Non mi faccio incantare dalle denunce tardive di Renzi. Doveva parlare prima, doveva distinguersi mentre le persecuzioni giudiziarie erano in atto. Invece si unì alla canea dei persecutori. Questo pentimento tardivo sembra quello di un Giovanni Brusca o di un Gaspare Mutolo che dopo aver fatto danni si erge a moralista. Renzi non ci incanta».
Accomunato a sordidi pentiti, approccio fallito. Il Gran Sabotatore sta perdendo i chili e i colpi. E ha un problema: deve superare lo sbarramento del 4 per cento alle Europee e non sa dove andare a prendere la scala. I colpetti di gomito a destra servono anche a questo.
Spiffera un vecchio nostromo che ha in mano le rotte della politica renziana: «Possibile che nel centrodestra non capiscano che il sì alla commissione d’inchiesta Covid, il no al salario minimo, l’appoggio al divieto sulla carne sintetica e al garantismo spinto sul caso Santanchè sono segnali? Segnali di fumo scambiati per fumogeni».
Siamo sempre al peccato originale, avvenuto dopo il famoso colloquio di Arcore, quando Berlusconi allargò le braccia e sospirò: «Il ragazzo dice spesso cose giuste ma dovrebbe scegliere la nostra metà campo». E invece scelse prima il Pd mascherato nella stagione riformista e poi Carlo Calenda, il Pericle dei Parioli. Dovevano essere Panatta e Bertolucci, doppio da Coppa Davis, ma è finita a racchettate. La guerra dei Roses.
«Se per Calenda sono un mostro, amici come prima», ha sentenziato l’ex sindaco di Firenze al momento della rottura. Nemmeno Emmanuel Macron è riuscito a far da paciere, partecipando alla riunione plenaria di Renew Europe per studiare le strategie in vista delle prossime elezioni a Bruxelles. L’iconografia non mente: Matteo guarda a destra, Carlo a sinistra. E imputa all’ex amico lo sgarbo supremo: «La Commissione Covid è illuminante. Italia Viva era nel governo Conte 2, ha approvato tutti i provvedimenti sulla pandemia in consiglio dei ministri e in parlamento. Che senso ha diventare il paladino di una commissione che finirà per essere una polemica infinita sul Covid?».
Il Terzo Polo deflagrato comincia ad annoiare il conferenziere d’Arabia, altro hobby ben remunerato dell’affabulatore toscano. I viaggi da Mohammed bin Salman gli sono valsi 1,1 milioni nel 2021 per «prestazioni fornite in qualità di consulente»; sarebbe ora di tornare laggiù a toccare con mano quello che, con una spontaneità degna di miglior causa, definì «il nuovo Rinascimento».
Ma l’invito latita e la politica internazionale non ne guadagna: perfino Luigi Di Maio ha trovato uno strapuntino istituzionale all’estero via Mario Draghi; lui che ha sponsorizzato, adorato, pianto il messia no. Sono delusioni che procurano amarezza, qualche volta astio. E non sai mai da dove arriva la torta in faccia.
In uscita dalla Rai, Bianca Berlinguer ha rivelato: «Il fatto che io sia una donna di sinistra, per qualcuno ha generato un’equazione. Che allora dovevo assecondare le decisioni di quella parte politica. In particolare era stata la pretesa di Matteo Renzi. Quando ero direttore del Tg3 richiedeva due servizi al giorno, uno contro i 5 Stelle e un altro contro Pierluigi Bersani». L’ex premier vacilla, prende atto del momento difficile e poi querela. Lui non sopporta i tribunali ma li elegge a rifugio contro un’entità astratta che detesta anche di più: i giornalisti.
Tranne quelli che lavorano per lui e Beppe Severgnini che avrebbe voluto candidare col Pd dieci anni fa. Anche in assise qualcosa comincia ad andargli storto. Meno di un mese fa ha perso una causa con il quotidiano La Verità perché, secondo la giudice Susanna Zanda, «l’attributo “bullo” non è un’offesa». Con l’aggiunta della morale nella sentenza: «Fondamentalmente vorrebbe impedire al libero giornalismo di informare la popolazione solo perché non è iscritto nel registro degli indagati». Una sconfitta che fa il paio con quella relativa alla causa intentata contro il Fatto Quotidiano da Andrea Conticini, cognato di Renzi, anch’essa appena rigettata: sul giornale erano state infatti raccontate le sue controverse operazioni di investimento immobiliare in Italia ed Europa.
Per fortuna di Matteo c’è sempre un rifugio, anche un sabotatore stanco ne ha bisogno. Da qualche mese ha trovato riparo nella redazione del Riformista come direttore editoriale per «cavalcare meglio la post-verità». Un porto tranquillo dove divertirsi, attaccare i giudici, titillare la permalosità di Calenda, intervistare l’armocromista di Elly Schlein e tornare Giamburrasca. Come il giorno dopo le elezioni spagnole, quando non ce l’ha proprio fatta a non dire a Giorgia Meloni: «La senti questa Vox?». Come commentatore è ridondante, ditino sempre alzato. Il suo miglior exploit rimane il primo pezzo, un’imperdibile conversazione con Luciano Spalletti, toscanaccio ex allenatore del Napoli con lo scudetto in tasca. Fiorello, Spalletti: Renzi ama avere amici che contano in altri mondi, guru alternativi pop. A un certo punto il mister gli dice, citando Arthur Schopenhauer: «Il talento colpisce un bersaglio che nessuno colpisce, il genio colpisce un bersaglio che nessuno vede». Sta parlando di Diego Maradona, ma il Bullo è convinto che si riferisca a lui.
