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La maledetta primavera di Draghi

La maledetta primavera di Draghi

I numeri dell’Italia sono da brivido: un Pil che cresce appena del 2,3 per cento, inflazione al 6,5 per cento, pressione fiscale da record. Mentre il premier insiste sulle sanzioni alla Russia e cerca energia altrove (pagandola di più), il Pnrr appare ormai superato dagli eventi, le riforme sono al palo. E all’orizzonte si intravedono nuove tasse.


Siamo alla canna del gas? Mentre il governo annuncia che gli italiani devono soffrire il caldo – condizionatore vietato fino a 27 gradi – arriva la doccia fredda del Fondo monetario internazionale: il Pil dell’Italia crescerà al massimo del 2,3 per cento quest’anno. Tre mesi fa la stima era del 3,8 per cento: rispetto alla previsione della crescita del Pil mondiale, rivista anche questa al ribasso al 3,6 per cento, siamo per distacco il fanalino di coda delle economie avanzate.

Dando retta alla Banca mondiale che vede l’economia del globo in crescita solo del 3,2 per cento, considerando la frenata della Cina causa Covid, siamo messi ancora peggio. L’ennesima conferma che quanto scritto dal ministro dell’Economia Daniele Franco nel Def è del tutto approssimativo. Già siamo passati dal 4,7 previsto nella Nadef al 3,1 del documento di economia e finanza licenziato ai primi di aprile, ora anche questa cifra pare irrealizzabile. Confindustria stima la crescita all’1,9, Bankitalia dà una forchetta tra il 2 e il meno 0,5 per cento, Confcommercio fissa la crescita all’1,3 per cento.

Numeri da brivido a cui se ne aggiungono altri: inflazione al 6,5 per cento destinata a salire, debito pubblico che segna un altro record (l’ultimo dato disponibile è di febbraio) a 2.736 miliardi, pressione fiscale che nel 2021 ha toccato il picco mai raggiunto del 43,5 per cento. È evidente che con questi numeri pensare a un riequilibrio del rapporto deficit/Pil (al 5,6 per cento) e debito/Pil (al 147 per cento), come ipotizzato sin qui nei documenti ufficiali del governo, appare un’incognita aleatoria. Anche perché l’economia italiana mantiene intonse tutte le sue fragilità.

Lo ha certificato l’Eurostat prima della crisi ucraina. L’Europa ha superato i livelli del 2019 lasciandosi alle spalle l’effetto pandemia: non così Spagna, Italia, Grecia e Portogallo (i Paesi «Pigs», come li chiama la stampa anglosassone). Neppure a fine anno l’Italia recupererà i livelli pre-pandemia. Anche sommando a valori nominali la crescita del 2021 (6,7 per cento) con la crescita mediana attesa (1,8 per cento) si resta sotto lo sprofondo dell’8,9 registrato nel 2020, con in più un debito pubblico gonfiato di altri 350 miliardi e un’inflazione moltiplicata 6 volte.

A fronte di questo quadro Mario Draghi per ora non ha cambiato il copione della sua azione di governo. Affronta la sua «maledetta Primavera» allineato sulle posizioni dell’amministrazione Biden sulle sanzioni alla Russia, fa il duro – inascoltato – in Europa sul tetto al prezzo del gas e si trova isolato insieme alla Von der Leyen nella richiesta di staccare il tubo siberiano, va giro per il mondo alla ricerca dell’energia perduta con scarsi risultati mentre in casa ha qualche problema di stabilità dei partiti; le grandi riforme – giustizia e fisco su tutte – sono al palo.

Il Pnrr, che per metà spende soldi sulla transizione verde, è superato sia per costi che per obiettivi, visto che dobbiamo riaprire le centrali a carbone, ma non cambia. Così come immutabili sono i 120 miliardi in più di debito che comporta e che a questi ritmi di crescita faremo fatica a ripagare. Anche le categorie economiche scalpitano nervosamente. Chiedono un passo in avanti di strategia che per ora non si vede. Il segretario della Cgil Maurizio Landini a fronte dell’inflazione vuole di fatto il ripristino della scala mobile e insiste per una patrimoniale sui redditi bassi. Alla patrimoniale pensa anche l’Europa e il presidente del Consiglio tiene chiusa a chiave nei cassetti la vera finalità della riforma del catasto.

Che all’orizzonte ci siano nuove tasse nonostante le promesse di Draghi pare inevitabile, che siano sostenibili (per usare un termine di moda) è tutto da vedere. Il percorso intrapreso dal premier è il viottolo molto accidentato: multe a chi trasgredisce limiti inutili come sui condizionatori, contributi a pioggerellina e, ultima ratio, un contenuto scostamento di bilancio. Manca però la Draghinomics. Dopo la corsa al Colle, persa, Draghi sembra un cavallo sfiancato. La prova è proprio il decreto termosifoni. Per cercare di risparmiare 4 miliardi di metri cubi di metano e sedersi al tavolo dei sanzionatori con giusto orgoglio il nostro presidente del Consiglio impone dal 1° maggio di tenere spenti i condizionatori pena – of course – multe ai trasgressori (anche se non si sa come fare gli accertamenti) e città al buio come primo assaggio dei razionamenti che ormai si profilano all’orizzonte.

Il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani e quello degli Esteri Luigi Di Maio vanno nella Repubblica del Congo e in Angola a cercare gas. Lo schema è lo stesso dell’Algeria, da cui ricaveremo, se va bene, 3 miliardi di metri cubi in un anno pagandolo a una società partecipata al 49 per cento da Gazprom, solo che i due Paesi della costa occidentale africana hanno un problema in più: sono senza grano e lo prendono da Putin. In sostanza, per comprare meno gas (Draghi non vorrebbe affatto) dalla Russia stiamo cercando in giro per il mondo gas che costa di più: da quello liquefatto che ci vuole vendere Biden a un prezzo superiore del 50 per cento, a quello siberiano che arriva «via tubo» e non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti. Non sono poi state sbloccate le trivellazioni a casa nostra – che ha meno regolarità di fornitura e alla fine produce comunque utilità per la Russia. È da tali contraddizioni che occorre partire per comprendere se la Draghinomics c’è e se funziona.

Quattro sono i capitoli di questo manuale di sopravvivenza: l’economia reale e il Pnrr che sembra sempre di più solo una lista di buone intenzioni; i consumi e l’inflazione; i conti pubblici e il quadro «macro» tra Bce e tassi. Una traccia di come muoversi dovrebbe essere il Def, dove c’è tutto e il suo contrario, con il ministro dell’Economia Daniele Franco il quale non ha saputo fare di meglio che scrivere «il quadro è molto incerto, ci sono forti rischi».

Il Centro studi di Confindustria ha rilevato a marzo un -1,5 per cento della produzione, con il crollo degli ordini e l’incremento abnorme dei costi. La Confartigianato certifica che il costo dell’energia per le imprese italiane è aumentato dell’81,9 per cento, in Germania e Francia del 10, 4, il che ha determinato «casi di lockdown energetico: a febbraio 2022 la domanda di gas delle imprese manifatturiere risulta del 9,3 inferiore a quella di un anno prima e a marzo cede il 10,3 per cento». Un impulso al Pil doveva venire dal Pnrr che è fatto per il 45 per cento della spesa per infrastrutture. Ebbene, il presidente dell’Ance (l’associazione dei costruttori) Gabriele Buia è stato esplicito: «Con la lievitazione dei costi cui non segue l’adeguamento dei fondi stanziati non ci resta che chiudere i cantieri». A questo si aggiunge la difficoltà crescente del comparto costruzioni – ha determinato il recupero del Pil del 2021- a stare dietro alle contorsioni del superbonus edilizio del 110 per cento, con le principali banche che non accettano più la cessione dei crediti fiscali.

Se questo è un abbozzo di quadro dell’economia reale ci sono i dati sul fronte dei consumi e dell’inflazione. L’Istat ha rivisto al ribasso quella di marzo (6,5 a fronte di una prima stima del 6,7) nel Documento di economia e finanza si calcola un’inflazione al 5,8 per cento e tutti gli indicatori dicono che il traguardo dell’8 è vicinissimo. E c’è un’incognita di cui nessuno tiene conto: 622 contratti di lavoro scaduti su 992 esistenti in Italia. Vuol dire che il 62,7 per cento di chi lavora si aspetta di recuperare l’inflazione, il che ne produrrà altra. È che Landini insiste per «la patrimoniale». Senza contare che dal 3 maggio spariscono le azioni di calmiere sui carburanti: e i prezzi del greggio che, insistendo con le sanzioni alla Russia sul petrolio, sono visti dagli analisti al livello record di 180 dollari al barile. Il contraccolpo sui consumi sarebbe micidiale.

Infine, gli scenari europei che si manifesteranno in maggio. Paolo Gentiloni, commissario Ue all’Economia, ha già detto che non è pensabile ripristinare adesso il patto di stabilità. Draghi però – deve tenere conto anche della paralisi della Bce con Christine Lagarde indecisa a tutto mentre l’euro si deprezza e i rendimenti dei Btp s’impennano – sa bene che la crisi e l’impatto delle sanzioni alla Russia in Europa sono asimmetrici e sa anche che dai Paesi frugali può venire una nuova spinta al rigore. È vero che la frenata tedesca può determinare una mitigazione delle politiche restrittive, ma c’è il rovescio di questa medaglia. La Germania è il primo nostro partner commerciale e, se si ferma «la locomotiva d’Europa», noi finiamo direttamente su un binario morto.

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