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La lettera con cui Guido Carli affidò una missione a Draghi

La lettera con cui Guido Carli affidò una missione a Draghi

In una lettera che Panorama pubblica per la prima volta, gli inizi della carriera del neo premier, in un altro momento cruciale nella storia del Paese. A scrivere la missiva, l’allora ministro del Tesoro al presidente del Consiglio dell’epoca, Giulio Andreotti.


Mario Draghi è «in possesso di indiscussa considerevole professionalità nelle materie economiche, ha maturato una notevole esperienza in ordine all’operatività dei servizi del Tesoro avendo svolto con successo incarichi di studi e consulenza affidatigli dai ministri del Tesoro succedutisi nel tempo».

La lettera è datata 10 gennaio 1991. E segna l’inizio della carriera di Draghi al ministero del Tesoro. Il destinatario è l’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti. A firmare la missiva è Guido Carli, che fu ministro del Tesoro nel sesto e settimo governo Andreotti (22 luglio 1989 – 12 aprile 1991 e 12 aprile 1991 – 24 aprile 1992).

Carli si rivolge ad Andreotti a seguito delle dimissioni presentate da Mario Sarcinelli, al tempo direttore generale del Tesoro, che avrebbe lasciato la poltrona dal 1° marzo del 1991. «Evidenti ragioni di opportunità», scrive Carli, richiedono che alla nomina del successore «si proceda con la massima tempestività» in modo da assicurare che l’immissione in carica del nuovo direttore «avvenga senza soluzione di continuità».

Per questo motivo, Carli propone per l’incarico Draghi allegando il curriculum. E sottolineandone anche la «ragguardevole esperienza internazionale acquisita nello svolgimento di incarichi operativi presso la Banca Mondiale e la Banca Interamericana di sviluppo in rappresentanza del nostro Paese» si legge nel documento che Panorama ha potuto consultare su gentile concessione dell’Istituto Sturzo-Archivio Giulio Andreotti.

In un’intervista a Draghi realizzata nel 2014 da Federico Carli, presidente dell’Associazione di cultura economica Guido Carli e nipote dell’ex ministro nonché ex governatore di Bankitalia, il neo premier racconta quei giorni cruciali. Dopo circa un anno di lavoro alla banca, verso la fine del 1990, ci fu un dissidio fra Guido Carli e il direttore generale del Tesoro, Mario Sarcinelli, alla fine del quale Sarcinelli diede le dimissioni. La questione era la Sace, la società pubblica specializzata nel settore assicurativo-finanziario, di cui Sarcinelli era presidente in quanto direttore del Tesoro.

C’erano forti pressioni di alcuni esponenti del governo presieduto da Andreotti per far affluire finanziamenti a imprenditori per esportazioni. Questi finanziamenti potevano essere concessi dalle banche solo se assicurati dalla Sace. Questa, con Sarcinelli, continuava a opporsi. Allora fu proposta una legge che poneva la decisione direttamente in capo al governo, sempre però previa valutazione della Sace. Le difficoltà continuarono e nel consiglio della società ci fu un voto contro Sarcinelli. Che, non sentendosi sostenuto da Carli, si dimise.

«Fu allora che Ciampi (allora governatore di Bankitalia, ndr) mi chiamò e mi chiese se fossi interessato al posto di direttore generale del Tesoro. La mia prima risposta fu che non avevo la più pallida idea di cosa fosse questo lavoro» racconta Draghi. Che esitò parecchio, un mese e mezzo. E in quel periodo rivide Carli. «Alla fine di queste conversazioni, che tenemmo nell’ufficio che aveva in via Due Macelli, sia Carli che Ciampi mi dissero: “Si decida, per cortesia”. Accettai l’offerta. Si dovette ancora interpellare il presidente del Consiglio, il quale disse sì. Così è cominciato questo mio rapporto professionale con Carli, che è stato breve, ma molto intenso. Per me erano i primi passi nell’amministrazione pubblica in una posizione di grande responsabilità, in un momento in cui il sistema si stava sgretolando rapidamente. E la prima questione fu proprio la Sace, di cui andavo ad assumere la presidenza» racconta Draghi. Aggiungendo ricordi personali.

Per lui che era abituato alla Banca Mondiale dove i documenti per le decisioni arrivavano molto ben costruiti, precisi, almeno due settimane prima della riunione nella quale si doveva deliberare, fu complicato ritrovarsi sul tavolo alla prima riunione qualcosa come 200 schede in cui non si vedevano neanche bene i nomi e le cifre, perché erano tutte sbiadite. «Io ero molto a disagio. Alla fine dico: “… Ma scusate, questo è come se uno sta lì, apre la porta con la lingua di fuori e tu passi col francobollo e l’attacchi!”. Risata di tutti. E io: “Voi ridete, ma francamente non mi sento di approvare niente”. Diventai direttore generale del Tesoro, e quindi presidente della Sace, il 1° marzo 1991: la Sace non approvò niente fino al giugno-luglio di quell’anno».

La mossa non piacque a tutti, anzi. Draghi ricevette telefonate anche di notte. La situazione era difficile perché c’era una legge dello Stato che prescriveva certi adempimenti. Quanto a lui, venendo dalla Banca Mondiale, aveva ben chiara la situazione gravissima di Paesi come l’Unione sovietica e si era convinto che quelli fossero impieghi decisamente troppo rischiosi per un ente pubblico. Su questo punto tenne duro due anni. Grazie anche al sostegno di Guido Carli. Subito dopo Draghi decise di bloccare il programma di emissioni di titoli pubblici in valuta estera fino alla fine del 1992, ovvero fino a dopo la svalutazione. E Carli lo appoggiò anche in quel caso.

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