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L’SOS del Vernacoliere: abbonatevi

L’SOS del Vernacoliere: abbonatevi

Il celebre mensile satirico è un perfetto distillato di dissacrazione e «mancanza di rispetto» che va oltre Livorno e la battuta volgare, come racconta il suo fondatore-direttore-editore. Che chiama a raccolta i lettori per una battaglia di libertà.


«Emergenza Covid: chiudere tutto, ma le gambe no. Conte lasciaci trombà, è rimasta l’urtima libertà». Ecco il grido disperato dalla prima pagina de Il Vernacoliere. Mario Cardinali, 83 anni, è da 40 anni direttore-editore, deus ex machina del mitico mensile
di satira, umorismo «e mancanza di rispetto» in vernacolo livornese.

Dissacrante, provocatorio, cattiverrimo. Le sue micidiali prime pagine, mai politically correct, hanno fatto storia. E per alcune ha subìto paradossali processi: «A metà anni Ottanta scrissi che lo Stato tassava anche la “topa”, l’ultimo bene degli italiani. Fui denunciato per oscenità. Dovetti spiegare ai giudici che per me era una categoria kantiana dei disgraziati. Quando torna a casa l’operaio dice: “Speriamo ci sia un po’ di topa, perché se no lo si prende in quel posto e basta”. È l’identificazione della speranza. Parlai per oltre un’ora. Fui assolto». Oggi tra crisi economica e Covid rischia di non farcela, così dalle sue pagine ha lanciato un appello accorato: per la sopravvivenza della testata servono nuovi abbonamenti.

È davvero così: Il Vernacoliere rischia di chiudere?
«No, andremo avanti a qualunque costo, ma siamo in sofferenza. Prima la crisi dell’editoria cartacea e le edicole che chiudevano. E ora a dare il colpo finale, il Covid. Veniamo da un passato glorioso di 80.000 copie a numero, di cui 60.000 vendute negli anni Novanta durante “Mani Pulite”. Oggi siamo a 20.000».

Che cosa è cambiato?
«C’era un altro mondo, la satira aveva ancora una funzione sociale, era uno sberleffo al potere. Ora è diventata un modulo espressivo anche per i politici, una risata annacquata. Manca lo scopo. Apri il web e trovi battutine da tutte le parti. Il Vernacoliere nel suo piccolo era nato con una visione di antinomia. Una palestra di libero pensiero. Su Facebook abbiamo 300.000 follower. Tutti a sganasciarsi dalle risate, a dire “siete ganzi”, ma poi il giornale non lo comprano. E allora, signori cari, come si dice a Livorno, frugatevi. Cercate di sostenere la libera stampa. Il mio è un appello alle coscienze dei lettori».

Per chi è nato Il Vernacoliere?
«È stata sempre la voce dei poveracci, di quelli messi alla gogna, gli “allezziti”, come si dice da noi, da lezzo. Quelli con lo sporco incistato».

Questa pandemia ci porterà a essere tutti allezziti?
«Le banche sono piene di risparmi, la gente continua ad andare in ferie, tantissimi piangono solo perché non vanno a sciare. I disgraziati sono i disgraziati di sempre, ma intorno a questa storia c’è un sacco di gente che si sta ingrassando. Come avviene
una sciagura arrivano gli speculatori. Intorno al Covid l’interesse economico è immenso e vedremo ora con i vaccini. Quanta gente fa arricchire la sventura altrui. Dall’immenso giro di affari delle farmacie, mica sono speculatori per l’amore del cielo,
ma sono gente a cui certe disgrazie non dispiacciono, fino ai grossi professionisti. Non sono come il bottegaio che se nessuno entra in bottega non mangia. Ci sono tre mondi: i garantiti, i meno garantiti, ossia quelli che sono sotto un padrone, e i poveracci».

Chi sono i garantiti?
«Chiamiamoli con il loro nome: i benestanti. L’Italia ne è piena. Quanta gente oggi chiede il sostegno e fino a ieri non ha pagato le tasse? Sapere che i miei quattrini vanno anche a chi ha evaso il 70, l’80%, non mi fa piacere. Colpisce l’ipocrisia di tanti che oggi piangono miseria. La miseria è dei dipendenti che vengono licenziati».

E gli altri?
«Siamo uno stranissimo Paese: pieno di ricchi che risultano nullatenenti. Dopo che si sono fatti la villa, la barca, il macchinone, sulla dichiarazione dei redditi non gli ritrovi neanche un euro. Abbiamo un sistema fiscale grottesco».

A chi sta pensando?
«Alle facce di culo degli onorevoli che hanno chiesto il bonus, per esempio. A loro dedicai una copertina: “Anche l’onorevoli possano avé fame. Provateci voi a campa’ con 15.000 euri al mese”. Ma c’è chi se la sta passando molto male. Sono i non garantiti, quelli che stanno sempre sotto».

In questo sistema come può incidere la satira?
«Un tempo incideva, c’era la voglia di ridere in modo liberatorio: il re è nudo. Oggi siamo tutti nudi. Nulla fa più scandalo. C’è assuefazione. Non c’è più quella voglia di insorgenza di un tempo, tutto è edulcorato. In una ricerca di commistione e convenienza. Scendono in strada a protestare, magari perché non gli danno il monopattino. Escrescenze di pensiero e poi più che pensiero è voglia di fare casino. La voce satirica serviva per la riflessione. Oggi è più facile che si rifletta criticamente sul perché Pirlo non fa più vincere la Juventus».

Come siamo arrivati a questo punto?
«Sta giungendo a maturazione quello che è stato mezzo secolo di obnubilamento delle coscienze. Basti pensare alla tv cosa ci ha propinato: giochi, giochini, cretinate, telenovele. Hanno idiotizzato la gente. La massificazione dei cervelli ci ha portato a essere come polli d’allevamento. L’importante è consumare. E consumiamo l’infinitamente inutile. Abbiamo costruito un’economia sul superfluo».

Che Paese eravamo quando nel ’61 iniziò con il settimanale LivornoCronaca?
«Era un’altra Italia, dove si aveva ancora il coraggio delle proprie idee e la fiducia di poter cambiare il mondo. Oggi c’è solo la speranza di stare bene a tutti i costi. Ci siamo acquietati. E quando scoppiano cose come il coronavirus esplode un malcontento generale e riemergono le delusioni del passato. Eppure la gente non ritrova più una coscienza di classe. È una parola che sembra passata di moda. Io ci sono nato con la coscienza di classe, ma non se ne sente più parlare. Si è vista la sollevazione quando hanno chiuso gli stadi. Ma siamo matti? No, non lo siamo. Lo stadio è un bene di consumo per un bisogno ormai diventato fondamentale. Perché al di là di quello, che cosa ci rimane?»

Per citarla bisognerebbe dire che resta la «potta»…
«”Che potta, deh!” a Livorno si dice di una bella donna. Celebra e ingigantisce. È il senso della vita: da lì si nasce e per lei si muore. Volgarizzando e sintetizzando: l’orgasmo è un’affermazione di sé. Trombo ergo sum. Ma ormai non è più nemmeno così. Da anni le mie amiche più giovani mi dicono che gli uomini non le guardano neanche. Anche questo è frutto del consumismo,
della corsa all’edonismo».

Quando abbiamo iniziato a perdere per strada i sogni?
«Forse da Tangentopoli. È stato l’inizio del disvelamento della corruzione istituzionalizzata. E da lì è nata la rassegnazione. Il non voler cambiare, perché in fondo in questa situazione ci si sguazza. La sanità privata è uno dei classici esempi della degenerazione del concetto di Stato. Da Duilio Poggiolini e il suo pouf imbottito a tutti quelli che ci hanno mangiato. Perché le Regioni tengono così disperatamente alla sanità?»

Me lo dica lei.
«Perché è un immenso centro di potere. E una fonte enorme di quattrini».

Come le sembra questa classe politica?
«Prima erano furfanti, non tutti, ma competenti. Oggi sono più che altro incompetenti. E la cosa non meraviglia nessuno. Conta solo l’apparire, non il sapere. Siamo una società di buffoni. Io, figlio di operaio, ho fatto il liceo classico, perché allora aveva
un significato».

La sua famiglia voleva che studiasse?
«Si tolsero il pane di bocca per pagarmi gli studi. Allora il classico era la scuola dei signori. Papà operaio e mia madre casalinga aprirono una botteguccia di alimentari per campare. Al mattino con la carretta a mano accompagnavo mamma al mercato. E poi scappavo a scuola, dove, lo dico con malcelato orgoglio, ero tra i migliori».

Mai stato iscritto al Pci?
«Non ho mai avuto una tessera. Né di destra né di sinistra, manco del Rotary».

Soddisfatto delle scelte che ha fatto?
«Mi illudo di essere stato un uomo libero. Anche se poi veramente liberi non lo si è mai, almeno davanti alla morte. Come si dice a Livorno: “La morte ci deve trova’ vivi”. Con la voglia di non cedere neanche all’ultimo. Resistere fino alla fine. E resistere,
per la mentalità livornese, significa continuare a dire la propria. Non chinare la testa. E io penso di esserci riuscito».

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