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Pier Luigi Celli: «La Rai non ti fa vincere le elezioni»

Pier Luigi Celli: «La Rai non ti fa vincere le elezioni»

A 80 anni il supermanager, già a capo dell’azienda italiana più complicata, dà la sua ricetta per rilanciarla. E poi quella per far tornare i giovani in fuga dal Paese. Senza dimenticare di togliersi qualche «sassolino» dalla scarpa…


«A 80 anni servono saggezza e distacco, concetti che conosco poco. Mai stato diplomatico, per questo l’intervista mi preoccupa». L’8 luglio Pier Luigi Celli entra nel club dei patriarchi e ne ha l’aspetto: barba bianca appuntita sul mento, rughe da vita vissuta in trincea, il vezzo di massaggiarsi la testa abbronzata per tranquillizzare le idee. Al supermanager romagnolo che provò a domare la Rai, lavorò all’Eni, contribuì al lancio di Omnitel e Wind, e fu direttore generale dell’Università Luiss (oltre a svariati cda come Illy e Unipol) manca l’iconico toscano penzolante dalle labbra: dopo il tumore può solo guardarlo. Nessuna cortina fumogena, l’estate del patriarca si gioca su ricordi limpidi – con buona pace di chi si arrabbiò (Lamberto Dini, Beniamino Andreatta, Giorgio Napolitano) – e due consigli non richiesti. Uno all’a.d. di viale Mazzini, Carlo Fuortes: «Far uscire i partiti dalla Rai è impossibile». L’altro alle segreterie politiche: «Inutile agitarsi, la Rai non vi farà vincere le elezioni».

Presidente Celli cos’è questa storia da Re Lear, che invecchia senza diventare saggio?

Ma no, semplicemente sono convinto che nella vita fare il pesce in barile non paghi, così ho sempre detto e sostenuto ciò che pensavo. Non ho mai lasciato sassolini nelle scarpe a far male ai piedi, li espellevo subito. In Rai questo mi ha creato più di un problema. In Rai si sopravvive con l’ipocrisia. Per me sarebbe stato impossibile. Non ho mai lavorato per me stesso, né ho brigato. Ma da direttore generale non volevo tornare; conoscevo l’ambiente e non mi andava di combattere.

Perché usa il verbo tornare?

Ero stato in azienda una prima volta come capo del personale con i Professori negli anni Novanta. Periodo difficile, non c’erano i soldi per le tredicesime. Ricordo l’angoscia nel riportare a casa con gli aerei militari le salme di Ilaria Alpi da Mogadiscio, Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo da Mostar. Quel 1994 fu tremendo. Quattro anni dopo mi proposero di tornare come direttore generale e lo feci malvolentieri, anche se la situazione era migliore rispetto a oggi.

La lottizzazione dominava anche allora. Giuliano Amato diceva: «Più che un servizio pubblico la Rai è un servizio ai partiti».

Ma l’azienda dipendeva dall’Iri, non c’era la responsabilità diretta della politica come ora. Adesso i vertici nominati dal governo devono trattare comunque con i partiti e da posizioni meno chiare. Per me il rapporto con le segreterie era semplice: il servizio pubblico è di tutti. Loro mi chiamavano e io dicevo: devo avere rispetto per chi paga il canone. Poi mi sono dimesso perché non tolleravo che si volesse schierare la Rai per le elezioni. Quando i politici mi tiravano per la giacchetta, si finiva con furiose litigate.

Ha vissuto tre governi di centrosinistra: Prodi, D’Alema, Amato. Lei era una garanzia di area.

Guardi, ero di sinistra ma non organico ai partiti. Lo ero per percorso personale e culturale. Ma alla direzione di Raiuno feci una nomina di centrodestra (Agostino Saccà, ndr) perché quello era il candidato più valido. E il capo del personale era di An, ma bravo. Per me la meritocrazia è fondamentale e nessuno potrà dire che ho promosso un asino o il cavallo di Caligola.

La litigata più clamorosa?

Un ministro degli Esteri di allora (Lamberto Dini, ndr) voleva che nominassi un vicedirettore. Gli risposi: «Guardi, è già tanto se non lo licenzio perché ho scoperto che ha una consulenza esterna». Quando me ne andai il giornalista ebbe la nomina.

Prendere la porta d’uscita non è mai facile.

Gli unici ad averlo fatto negli ultimi 25 anni siamo stati io e Antonio Campo dall’Orto; se ti senti solido vai a cercare un lavoro sul mercato. La vera forza è la tua struttura professionale, se sei legato solo alla politica devi farci i conti.

L’a.d. Carlo Fuortes ha lanciato il proclama: fuori i partiti dalla Rai. Si è rivelato una barzelletta.

Non voglio criticare, dico solo che non mi comporterei allo stesso modo. Per me pronunciare quella frase non fu velleitario: l’ho fatto e ho pagato.

Qual è la ricetta per raddrizzare la corazzata-carrozzone?

La Rai andava e andrebbe messa sotto il cappello di una fondazione gestita da rettori universitari, uomini di cultura, persone che garantiscano la terzietà. La politica non può essere esclusa dal servizio pubblico ma neppure avere le mani in pasta direttamente. Vorrei anche sfatare un mito.

Quale?

La Rai non ti fa vincere le elezioni. Gli italiani non si fanno fregare: tanto più appoggi un partito, più vince l’altro. Oggi con web e social i confini sono anche più aperti, fungibili. Allora devi avere a disposizione gente in gamba che sa stare con dignità sui confini. In caso contrario ti riduci ad allevare polli di allevamento che aspettano il mangime.

A un certo punto lei ha cominciato a scrivere romanzi. Perché?

È un vizio. Sono partito tardi, a 44 anni, quando è nato mio figlio Mattia. Non avendo altri hobby, sabato e domenica scrivevo. L’ho fatto perché lui potesse sapere non cosa ma come pensava suo padre. Per capire bisogna mettere le cose per iscritto. Platone diceva: costruite storie, non fate discorsi.

Dicono che si facesse pagare i libri in bottiglie di vino.

È accaduto. Ho sempre avuto un rapporto conflittuale con i soldi. Quando ho consegnato il manoscritto l’editore mi ha chiesto quanto volessi. Ho pensato: «Mi sono divertito a scrivere, perché dovreste pagarmi?». Così abbiamo pattuito bottiglie di Lambrusco. Sono andato avanti cinque anni a berle e regalarle agli amici.

Come passa le giornate un ex supermanager?

Aiuto i giovani a orientarsi nel mondo del lavoro; l’ho fatto alla Luiss da direttore generale, ora lo faccio per i figli degli amici. Poi coltivo tutti i tipi di peperoncino in Salento, sono un contadino. Ma soprattutto guardo sorridere la mia nipotina Alice, otto mesi, che ci ha terremotato meravigliosamente la vita.

Molti ricordano la sua lettera sulla fuga dei cervelli che fece arrabbiare il presidente della Repubblica.

«Era uno scritto a mio figlio in cui lo invitavo ad andarsene dall’Italia. Una provocazione, conoscendolo non l’avrebbe mai fatto. I giornali lo pubblicarono, scoppiò la polemica e Giorgio Napolitano mi rimproverò. Stavo alla Luiss, mi occupavo di orientamento dei ragazzi: il mercato era fermo e i più bravi andavano all’estero. Dopo il can-can Nando Pagnoncelli fece un sondaggio, il 75 per cento degli italiani era d’accordo con me.

Sembrava un gesto disfattista.

Edmondo Berselli era in ospedale, lesse e mi telefonò per raccontarmi l’esperienza di suo figlio, che era andato a fare uno stage alla Saab in Svezia. Quando lo terminò voleva rientrare e spedì il curriculum a Finmeccanica. Nessuna risposta per quattro mesi. Allora lo mandò a due società aeronautiche britanniche: una settimana dopo fu convocato a Londra con biglietto aereo pagato. Prima retribuzione 3.500 sterline. Non mi pento di avere sollevato il problema, anzi lo rifarei. Forse in un altro modo.

Dov’è il suo fido sigaro Toscano?

Dopo una batteria di tre cancri sono stato costretto a smettere. Sulla scrivania c’è una vaschetta in cui conservo gli ultimi ammezzati; stanno lì da 15 anni. Li guardo, li tocco, li tengo in mano, li metto in bocca. Ma non posso accenderli. È un rito di riconciliazione con il passato.

I suoi amici spifferano che oltre a raccogliere peperoncini studia neuroscienze.

Sì, da una decina d’anni. Ho scoperto che molte aziende non capiscono il futuro perché non conoscono il cervello delle persone. Oggi nel mondo del lavoro non puoi vivere di routine perché fuori la vita non è più così. La tecnologia buca tutto, la pandemia ha bucato anche il perimetro sacro degli spazi aziendali, ha ridefinito il potere gerarchico di chi comanda.

Lei si è laureato in sociologia a Trento. Ha studiato con i cattivi maestri?

Francesco Alberoni, Beniamino Andreatta, veda lei se erano cattivi. Di Andreatta un po’ di anni dopo ho sperimentato la grinta.

Ci racconti.

Ero direttore alla Rai e venni a sapere che sua figlia Tinny Andreatta, allora collaboratrice, stava per passare a Mediaset. Mi dissero che era bravissima, così decisi di assumerla. Il giorno dopo il padre mi invitò a pranzo: era furibondo, ripeteva che il mondo avrebbe pensato che era stata presa grazie a lui. Mi impedì di mangiare e alla fine mi chiese una scatola di sigari perché era rimasto senza.

Soddisfatto dei primi 80 anni?

Dalla vita ho avuto più di quanto meritassi e fosse prevedibile. Sono figlio di un muratore e di una casalinga, l’unico di cinque maschi che aveva voglia di studiare. D’estate, quelle che voi chiamate vacanze per noi erano giornate di cantiere: aiutavamo papà a posare cubetti di porfido sulle strade. Appunto, i sassolini nelle scarpe non mi sono mai piaciuti.

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