La vicenda della cittadinanza onoraria a Francesca Albanese, a Bologna, sta diventando molto più di una disputa amministrativa: è una radiografia, impietosa e demoralizzante, delle contraddizioni che paralizzano il Partito Democratico.
Un partito che a livello nazionale non perde occasione per sbandierare il proprio sostegno “senza se e senza ma” alla causa palestinese, ma che quando c’è da assumersi responsabilità politiche concrete, sul territorio, si ritrae come se avesse visto un fantasma.
La nomina dell’inviata speciale dell’ONU: un entusiasmo improvviso e travolgente, ma ritrattato senza troppi ripensamenti
A ottobre, quando la cittadinanza onoraria venne proposta e approvata, il PD bolognese parlò come se stesse scrivendo una pagina di storia: “diritti umani”, “solidarietà internazionale”, “difesa dei popoli oppressi”.
Un linguaggio magniloquente, perfetto per i comunicati stampa.
Peccato che ora, a pochi mesi di distanza, dopo le parole dell’Albanese sul raid alla redazione de La Stampa, gli stessi esponenti che avevano alzato il pugno del progressismo sono i primi a colpire il tasto “minimizza”, “prendiamo le distanze”, “io non avrei votato così”.
Un voltafaccia fulmineo, che rivela quanto quelle grandi dichiarazioni di principio fossero, nella migliore delle ipotesi, leggerezze politiche calcolate travestite da coraggio morale.
Il Pd tra Gaza e Bologna: due pesi, due misure
È ormai un copione noto: a livello nazionale, il PD interpreta la parte dei difensori dei diritti palestinesi, con prese di posizione vibranti, manifestazioni, cori e hashtag di solidarietà. A livello locale, quando la solidarietà smette di essere un tweet e diventa un atto politico reale, il partito si spaventa, indietreggia, cerca il centro, poi riformula, poi giustifica.
Il caso di Francesca Albanese è perfetto per capire questa dinamica. Sostenere Gaza, da Roma o sui social, è relativamente semplice: il costo politico è basso, gli applausi facili. Però sostenere una figura che, nel bene o nel male, porta con sé conflitti, accuse reciproche, pressioni mediatiche? Ecco che in quell’esatto momento il PD si scioglie come neve al sole.
Il risultato è una posizione bipolare: un momento il partito si presenta come avanguardia etica internazionale, quello dopo si rifugia nella più cauta gestione del “non scontentiamo nessuno”.
I consiglieri che “si sono sbagliati”: l’arte della elegante ritrattazione
Uno dei dettagli più rivelatori dell’intera vicenda è la sfilata di consiglieri PD che, a distanza di settimane dal voto, confessano: «Abbiamo sbagliato». A volte, nella politica italiana, le ammissioni di colpa suonano come atti di coraggio.
Qui no. Qui sembrano piuttosto mosse tattiche per evitare di dover difendere una decisione presa quando l’atmosfera era più “conveniente”. Se la linea del partito fosse stata coerente, le strade sarebbero state due:
La prima: sostenere Albanese fino in fondo, assumendosi la responsabilità delle sue posizioni. La seconda: riconoscere sin dall’inizio che il ruolo della relatrice ONU è politicamente divisivo e quindi non proporre la cittadinanza. Invece, si è scelta la terza via: quella del “sì ma no, però forse, adesso vediamo”. Una tattica che non scontenta nessuno e, contemporaneamente, scontenta tutti.
La grande contraddizione: moralismo nazionale, pragmatismo locale
Il PD continua a descriversi come un partito dei valori. Tuttavia un valore, se vale solo quando non costa, non è un valore: è un accessorio. Il caso Albanese mostra un partito che vuole essere filo-palestinese senza prendersi il peso politico di esserlo davvero. Che difende la libertà di stampa in modo assoluto, ma che aveva premiato una personalità che, giustamente o meno, suscita critiche da quel mondo. Che parla di antifascismo come pilastro identitario, ma che non riesce a gestire con maturità un conflitto di opinioni. Il risultato è un’immagine di debolezza strutturale: un partito che non sa scegliere chi è, e che alla fine somiglia a quello che ogni giorno nega di essere: un partito che segue il vento.
La cittadinanza ad Albanese come specchio della crisi del Pd
La vicenda non è più solo su Francesca Albanese. È su un partito che predica fermezza morale e applica prudenza tattica. Che si proclama inflessibile sui diritti umani, ma si dimostra flessibile, forse troppo, quando quei diritti devono essere difesi con azioni concrete e potenzialmente rischiose. La decisione sulla revoca sarà un banco di prova: non tanto per la città, ma per il Partito Democratico, chiamato finalmente a scegliere se essere un partito di bandiere o un partito di scelte. E, finora, le bandiere hanno decisamente vinto sulle scelte.
