Il presidente turco Recep Tayyp Erdogan prosegue nel doppio gioco con Vladimir Putin. E l’Alleanza atlantica, che non vuole trattare direttamente con Mosca, lascia che sia Ankara a tenere aperto il dialogo. Con pericolosa posizione di debolezza nei conflitti in Ucraina e Medio Oriente.
Il lavoro sporco qualcuno deve pur farlo. E ilprotagonista ha capito che ci si guadagna anche molto. Si potesse raccontare la Nato con la penna di Mario Puzo o la cinepresa di Francis Ford Coppola si potrebbe dire che Recep Tayyp Erdogan – l’autocrate turco che va in vacanza in una località molto «in» sull’Egeo meridionale a Marmaris in una villa da 300 stanze, costata 60 milioni di dollari ai suoi connazionali: una residenza da sultano dove cinque anni fa hanno cercato di assassinarlo – s’è scelto il ruolo di Thomas Hagen: il consigliori. È senza dubbio un’anomalia nella compagine Nato, dove stanno in alleanza governi democraticamente eletti. E verrà forse molto presto il momento di gridare di nuovo: mamma, li turchi!
Quello del «sultano del Bosforo» è un regime a democrazia variabile che si macchia continuamente di crimini se non contro l’umanità certo contro il diritto internazionale – quello per esempio che la Nato sta difendendo in Ucraina – ma di cui nessuno parla. L’ultimo è stato un raid nel Kurdistan iracheno. Le truppe turche a fine luglio sono penetrate nel territorio di Baghdad per 50 chilometri, hanno razziato una trentina di villaggi, deportato migliaia di abitanti senza che Abdul Ratif Rashid, il presidente iracheno, inarcasse un ciglio. Anche perché non può farlo: quella parte del Paese è controllata dal Kdp, il partito guerrigliero curdo filo-turco, che combatte al fianco delle truppe di Ankara per interrompere le linee di collegamento tra i guerriglieri del Pkk e le altre aree del Bakur (il Kurdistan turco). Si tratta della violazione del territorio di un Stato sovrano da parte di Erdogan, che lo ha deciso unilateralmente. Ma la Nato lo lascia fare.
La ragione sta nel fatto che il presidente s’è assunto il compito di fare il doppio gioco con Vladimir Putin. La Nato non vuole trattare direttamente con Mosca e lascia che sia la Turchia a tenere aperti dei canali di comunicazione. È il lavoro sporco che Erdogan si fa lautamente retribuire. Il caso più recente è quello che il presidente americano uscente Joe Biden ha definito «un capolavoro della diplomazia» e che, invece, andrebbe raccontato come il primato dell’ipocrisia. Gli Stati Uniti hanno accettato nella speranza di fare un favore alla candidata Kamala Harris, i vertici europei della Nato hanno applaudito convinti che se vince Donald Trump per i Paesi del Vecchio continente saranno dolori.
Potrebbe essere una lettura fallace, ma saranno le prossime settimane a dirlo: se il Medio Oriente s’infiamma definitivamente si capirà davvero da che parte sta Erdogan e il «capolavoro diplomatico» potrebbe rivelarsi – come insegna da ventuno secoli il secondo libro dell’Eneide di Virgilio – un pericolosissimo cavallo di Troia. Il primo agosto ad Ankara è avvenuto uno scambio di prigionieri: Russia e Bielorussia hanno liberato 16 ostaggi in cambio di 10 prigionieri russi detenuti da Stati Uniti, Germania, Polonia, Slovenia e Norvegia. Ma il pallino lo ha tenuto in mano il presidente turco. Che è immediatamente passato all’incasso. In Italia si è gridato al tradimento per la nomina dello spagnolo Javier Colomina quale nuovo rappresentante speciale per i rapporti con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo.
L’ha avallata Jens Stoltenberg che sta per lasciare a Mark Rutte, l’ex premier olandese, la poltrona di segretario generale della Nato. Questo colpo di coda ha fatto infuriare il nostro ministro della Difesa Guido Crosetto e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che ha affidato all’ambasciatore Marco Peronaci una lettera ufficiale di protesta. Gli Stati Uniti per rabbonire gli italiani hanno fatto sapere che quella nomina con il nuovo segretario potrebbe anche decadere, ma intanto dal quartier generale di Bruxelles presentano così lo spagnolo: «Il Medio Oriente, il Nordafrica e le regioni del Sahel sono importanti per la nostra Alleanza. Javier Colomina ha una vasta esperienza nei rapporti con i partner della Nato». È il prezzo pagato per l’intesa sui prigionieri a Erdogan, che vuole allargare la propria influenza nel Mediterraneo. Se anche la nomina di Colomina fosse a tempo, sarebbe «qb» (quanto basta) per la Turchia, utilissima per estendere la sua rilevanza commerciale nel Maghreb e soprattutto per trattare con l’alleanza anti-israeliana di cui Putin è il più fermo, anche se apparentemente più pacato, alfiere. Su Israele Erdogan consulta più Mosca di Biden. Tutto questo in danno all’Italia.
Ankara è il primo concorrente del nostro Paese nel bacino mediterraneo per l’export di moda e tessili (vende per 80 miliardi di euro), per l’agroalimentare (la Turchia è il secondo produttore di pasta alimentare al mondo) e per i macchinari: ha avuto nel 2023 un boom di vendite del 9,9 per cento toccando i 25 miliardi di euro. Senza contare che capitali turchi stanno acquisendo nostri brand nazionali per rafforzare la loro presenza sulle sponde del Mediterraneo. Un diplomatico spagnolo al posto di un italiano fa molto comodo a Erdogan. Che l’autocrate si muova – come avrebbe detto Giovani Falcone – seguendo i soldi lo prova il tanto decantato «Black Sea grain initiative». Fu il patto, propiziato da Ankara, tra Mosca e Kiev per sbloccare l’export di frumento, mais e olio di girasole ucraini passando attraverso un canale di sicurezza nel mar Nero fino ai porti turchi del Bosforo. Quell’accordo ha avuto vita relativamente breve, ma ha consentito alla Turchia di diventare il secondo esportatore al mondo di grano duro assumendo anche una posizione autarchica. L’ex Asia minore ha annunciato il divieto all’importazione di grano straniero fino a metà ottobre 2024, mentre solo nei primi due mesi del 2024 ha esportato 35 milioni di tonnellate di frumento duro e complessivamente in tutto il 2023 ha venduto all’estero 1,3 milioni di tonnellate di grano duro. Non solo: ha ricavato 1,9 miliardi dalla vendita delle nocciole di cui detiene quasi il 70 per cento della produzione mondiale, ha sbloccato 50 mila tonnellate di olio di oliva.
L’export turco di acciaio, inoltre, è cresciuto dei 45 per cento: fino a giugno scorso ha venduto 6,5 milioni di tonnellate per qualcosa meno di cinque miliardi di dollari. Ed è in corso un altro doppio gioco con la Russia: apparentemente l’export verso Mosca è calato del 39 per cento, ma in realtà è aumentato perché Ankara triangola con i Paesi satellite di Mosca; soltanto vendendo 45 beni che Washington considera «ad alta priorità» come i microchip (che servono a i droni impiegati per bombardare l’Ucraina), i turchi nel 2023 hanno realizzato 210 milioni di dollari triplicando il volume di affari rispetto al periodo pre-guerra Mosca-Kiev.
Questa è la Turchia della Nato, il secondo esercito dell’organizzazione che però ora arriva a un punto critico. Si è schierato di fatto contro l’Alleanza atlantica, che forse anche per evitare la rottura con il suo membro più problematico non prende una chiara posizione nel conflitto mediorientale, stando dalla parte dell’Iran, di Hamas, e di Hezbollah. Erdogan non ha esitato a dire che il suo Paese «è pronto a invadere Israele cosi come già abbiamo fatto in Libia e Nagorno-Karabakh». Non solo ha bollato Benjamin Netanyahu come il nuovo Hitler, ha interrotto le relazioni commerciali con Tel Aviv e di fatto appoggia Hamas. Dopo aver condannato l’uccisione del capo supremo dei terroristi palestinesi Ismail Haniyeh ha eletto l’ex leader del movimento Khaled Meshal a suo interlocutore politico. Ed è caso ben strano: a Kiev, sotto le bandiere della Nato, Ankara dice di battersi per la democrazia; nel quadrante mediorientale – quello più lucroso per i suoi affari – sta dalla parte dei terroristi. L’attacco dell’Iran a Israele diventa lo spartiacque perché siano evidenti le vere intenzioni di Recep Tayyp Erdogan. Ma pare di capire che se la Nato – soprattutto i suoi membri europei sempre pronti a correre in soccorso di Volodymyr Zelenski, un presidente in perenne «prorogatio» che resta al suo posto evitando le elezioni, e del pari veloci a condannare Netanyahu perché non avrebbe il pieno consenso degli israeliani – si è messa alle spalle la battaglia di Lepanto e la resistenza alla potenza ottomana. Erdogan che non disdegna il dialogo con Putin è intenzionato a prendersi, quasi mezzo millennio dopo, la rivincita.
