Non esiste una reale lotta all’interno del partito. Si tratta, invece, di normali contrapposizioni tra più anime che convivono da sempre nel movimento. Che va oltre la personalità del suo segretario Matteo Salvini. Un’organizzazione radicata sul territorio che ha 100 mila iscritti, 800 sindaci e cinque governatori di Regione. E, alla vigilia di un’assemblea cruciale per la futura strategia, conta su una classe politica emergente.
Rischiano di fare l’errore di trent’anni fa: non capire, come accadde agli esordi del movimento lumbard, cosa sia e dove vada la Lega. Mancano pochi giorni all’assemblea nazionale programmatica che si tiene a Roma il 10 e l’11 dicembre mentre sono in svolgimento o indetti centinaia di congressi locali, eppure la rappresentazione che si continua a dare della Lega è la (presunta) contrapposizione di Matteo Salvini con i presidenti di Regione e Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico e capo dell’ala governista, la collocazione europea ritenuta ondivaga tra Viktor Orbán, i polacchi e Marine Le Pen, l’essere partito di lotta e di governo, formula peraltro inventata da Enrico Berlinguer per il Pci. Allora era cosa buona e giusta, oggi, se applicata alla Lega, diventa uno stigma d’inaffidabilità.
Nessuno si prende la briga di guardare l’universo leghista da dentro, forse per il timore di scoprire che è un partito ad ampia rappresentanza sociale – dagli operai agli artigiani passando per le piccole imprese e i professionisti – e a larga base territoriale. Lo raccontano solo attraverso «la bestia», la creatura di Luca Morisi – crocifisso per una non-inchiesta e dimenticato – messa in piedi per far lievitare la popolarità e l’attrattività di Matteo Salvini; ma se si sintonizzassero sulle frequenze di Rpl (un tempo era Radio Padania) scoprirebbero che il popolo leghista è altro: gente che ha dubbi sul futuro dei figli, suda nell’impresa, lamenta l’oblio dell’agricoltura, è soffocata dalle tasse, è smarrita dalla gazzarra sui vaccini, non si sente affatto di destra, ma non sopporta né il «luogocomunismo» né il «mainstream»; non vuole l’immigrazione incontrollata, chiede pensioni eque e pretende rispetto per la propria condizione di cittadino.
È un aggregato sociale che va da sfumature liberali fino a punte di veterosindacalismo. Invece l’analisi della Lega si riduce o alle schermaglie tra i big o a una «sentenza» che emise dieci anni fa Ilvo Diamanti – maître à penser della nostrana sinistra in cachemire – nell’occasione tristissima della scomparsa di Guido Passalacqua, il giornalista di Repubblica che per primo intuì la novità dirompente di Umberto Bossi contro il parere di quasi tutti, Eugenio Scalfari compreso. Scrisse allora Diamanti: «Quella Lega non c’è più. Quella politica non c’è più. Quel Paese non c’è più. Guido Passalacqua, oggi, non avrebbe nulla da narrare».
Perciò, a dare retta a molti osservatori, oggi la Lega non più Nord è riassunta in ciò che fa e dice Salvini. Assimilandola come tutti gli altri a un partito personale, anzi, meglio, a un comitato elettorale, per usare un’efficace espressione di Paolo Cirino Pomicino, si finisce per non capire nulla della Lega. Che è sì tenuta in pugno da Salvini, ma è un partito extralarge.
Cirino Pomicino individua in Mario Draghi l’effetto e non la causa della perdita di peso dei partiti. Semplicemente perché i partiti non ci sono più: hanno nomi che non denunciano né identità politica né appartenenza. La Lega che tutti identificano in e con Salvini invece è il più antico e forse l’unico partito di massa rimasto. Centomila iscritti, 800 sindaci, quattro presidenti di Regione più quello dell’Umbria, Donatella Tesei, indipendente ma eletta con il decisivo appoggio leghista, migliaia di assessori; e, ancora, primo partito in regioni che ai tempi di Bossi erano «in partibus infidelium», una classe dirigente tra le più giovani d’Europa dove si contano 27 eurodeputati oltre a 133 onorevoli e 63 senatori… La Lega è l’unica formazione che, pur mantenendo una struttura federale, pratica il centralismo democratico.
La prova? Quando Giancarlo Giorgetti con la famosa intervista a Bruno Vespa ha posto il problema del semipresidenzialismo con la salita al Colle di Draghi, e ha criticato la collocazione europea di Salvini spingendolo a considerare l’ingresso nel Ppe, tutti hanno gridato al complotto. Tre giorni dopo, in un consiglio federale il segretario ha avuto adesione plebiscitaria a cominciare da Giorgetti e ha potuto dire «ascolto tutti, poi decido io». Ma lo scossone ha prodotto la nuova spinta del partito che infatti sta risalendo nei sondaggi.
È vero che esiste la Liga, quella del «Doge» Luca Zaia, è vero che Massimiliano Fedriga, rampante presidente del Friuli-Venezia Giulia, dà segni di marcata indipendenza, ma stupirsene vuol dire non conoscere la Lega. Dove amministra e governa interpreta la «sua gente». Se i presidenti di Regione sul green pass si sono messi di traverso alla linea di Salvini lo hanno fatto per pragmatismo. C’è però qualcosa che sta cambiando: è la classe dirigente. I congressi locali determineranno il pensionamento di molti «commissari regionali» anche perché i giovani stanno prendendo la rincorsa.
Per esempio in Lombardia, dove emergono Magda Beretta, salviniana d’ordinanza, e Guido Guidesi, oggi assessore alle Attività produttive della Regione e fedelissimo a Giorgetti, in odore di raccogliere l’eredità di Attilio Fontana. Un altro degli outsider lombardi è Marco Altieri. E c’è un processo di rinnovamento profondo nella comunicazione del partito. La bestia ruggisce meno e oggi si riaffaccia l’idea di raccontare la Lega attraverso se stessa, anche se l’apparato social con centinaia di migliaia di follower resta un pilastro.
Alla nuova comunicazione lavorano due salviniani doc: Alessandro Morelli e Giulio Centemero, lo strumento è la radio che dovrebbe diventare anche web tv. La guida il direttore ormai storico Giulio Cainarca e il lancio (o rilancio) di quella che era Rpl che cambierà nome viene inteso come «feedback» della Lega verso il suo popolo.
«Attraverso l’informazione si tende a formare l’opinione» sottolinea a Panorama Cainarca «ma anche ad ascoltare la base sia di partito che potenzialmente elettorale». Per raccontare attraverso chi la vota una Lega che tende ad allargare la base, a cominciare proprio dall’assemblea programmatica di Roma che diventa sempre più il centro operativo del partito. Da qui l’idea – distorta – che esista una cesura tra Matteo Salvini e i cosiddetti «governatori del Nord».
Zaia per primo nel suo ultimo libro (Ragioniamoci sopra) confessa: «Non ho mai avuto altra tessera politica, il mio incontro con la Liga mi ha fatto diventare un amministratore, sono un uomo del fare». E gli uomini del fare costituiscono un blocco unico che certo condiziona le scelte politiche. C’è oggi un altro blocco che è quello degli uomini di governo: da Massimo Garavaglia ed Erika Stefani, ministri insieme a Giancarlo Giorgetti, a Gian Marco Centinaio, sottosegretario alle Politiche agricole amico fraterno di Salvini, che dice: «La Lega ha questo di bello, si discute, ma poi si decide e si segue tutti la stessa linea».
Centinaio è con Lorenzo Fontana e Andrea Crippa – i due vicesegretari – uno dei pilastri della leadership salviniana. Esiste una sorta di cabina di regia dove i capigruppo di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo fanno da collegamento con i territori rappresentati da deputati e senatori. La nuova Lega che si comincerà a vedere nell’assemblea di Roma (non un congresso, ma una verifica della linea politica e il rilancio dell’iniziativa sui territori) è un partito che si attrezza per le prossime decisive sfide (Quirinale e forse elezioni) cercando una smentita della logica delle correnti.
I quattro blocchi che esistono (i salviniani, i governisti attorno a Giorgetti, gli amministratori e i veneti) non sono disposti a mettere in discussione la leadership di Salvini (il frontman, quello che porta i voti), ma vogliono disegnare una nuova iniziativa politica: ci sono i soldi del Recovery da far arrivare ai territori, c’è l’economia da risollevare, c’è soprattutto l’esigenza di non lasciare spazio al partito delle tasse, il Pd, e di tenere unito il centrodestra senza consegnarne le chiavi a Giorgia Meloni. Per fare questo la Lega di lotta (i salviniani) torna a guardare alla sua «gente» lasciando che quella di governo (i giorgettiani) presidi al meglio il palazzo mentre alla Lega che amministra tocca di trasformare il consenso in azione.
È quasi un marciare divisi per colpire uniti.
