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Che fine hanno fatto

Sono tanti i «paladini» dell’antimafia in Sicilia incappati in guai giudiziari, spesso legati ai clan che – a parole – dicevano di voler combattere. Alcuni sono finiti in carcere, altri dimenticati, ma i più, forti del loro (presunto) passato da eroi della giustizia, hanno ancora oggi velleità politiche e sete di potere. E si stanno riorganizzando.


Fu ucciso a Capaci, il 23 maggio 1992, dai mafiosi. Ma il suo onore venne trucidato due anni prima, in uno studio televisivo, dal più arcigno degli antimafiosi. Leoluca Orlando, a Samarcanda, accusò Giovanni Falcone di occultare la verità per mire politiche: «Dentro i cassetti del palazzo di giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su quei delitti». Si riferiva agli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre. Il magistrato s’infuriò: «Se Orlando sa qualcosa, faccia i nomi, citi i fatti, si assuma la responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia». Quella sera, sostiene Maria Falcone, cominciò ufficialmente la campagna denigratoria contro il fratello.

Trent’anni dopo, il «sinnacollando», come lo chiama il popolo, non si pente: «Direi le stesse cose, ma con un tono diverso». I sollecitati nomi non li ha mai fatti. Ma il metodo è rimasto la sua cifra: «Il sospetto è l’anticamera della verità» ruggì una volta. «No, è l’anticamera del khomeinismo» corresse Falcone. A colpi di anatemi, il politico settantaquattrenne è ancora sindaco di Palermo. Al comando per 22 anni e sei mandati. Il suo regno finirà però a giugno: niente maggioranza, città paralizzata, bilancio in dissesto. E lui che viene escluso da ogni trattativa per designare il suo erede, tra i candidati del Pd. Nelle più recenti classifiche sul gradimento dei sindaci italiani stilate dal Sole 24 ore, campeggia al terzultimo nel 2021.

A corredo, ci sono un paio di insidiose inchieste. Orlando viene accusato di aver alterato i bilanci per quattro anni di fila, dal 2016 al 2019: «Entrate sovrastimate» scrivono i pm. Ed è indagato anche per 900 bare rimaste insepolte: omissione di atti d’ufficio. Non potrà più ripresentarsi. Smarrito, annuncia: «Non ci sarà mai più un sindaco come me». Su questo, pochi dubbi. La sua uscita di scena segnerà la fine dell’antimafia al potere. Pure lui, il cacicco più longevo, dovrà lasciare. Ultimo superstite dei «professionisti» denunciati da Leonardo Sciascia, in servizio permanente effettivo. Fulgido esponente di quella categoria che ha fatto e disfatto a colpi di fragorose scudisciate, indimostrabili accuse, magistrali mascariamenti.

La nemesi era già arrivata per un altro autoproclamato paladino: l’ex governatore dell’isola, Rosario Crocetta. Mentre sverna in Tunisia, è bersagliato da perigliosi processi. A novembre 2019 l’hanno rinviato a giudizio nell’inchiesta sull’armatore trapanese Ettore Morace. Il suo movimento, RiparteSicilia, avrebbe avuto circa 5 mila euro. Ma il procedimento più insidioso nasce dalla seconda tranche dell’indagine su Antonello Montante, l’ex vicepresidente di Confindustria con delega alla legalità, già condannato in primo grado a 14 anni per dossieraggio. Lo scorso aprile Crocetta viene rinviato a giudizio, assieme ad altre 12 persone. La legalità issata a farlocco vessillo. Al centro dell’inchiesta ci sono i pupi e il puparo. L’ex governatore si sarebbe messo a disposizione di Montante «asservendo agli interessi di quest’ultimo, e dei soggetti a lui legati, gli apparati dell’amministrazione regionale».

Crocetta assicura: «Affronterò il processo con fiducia e serenità». Viene però descritto dai pm come una marionetta. «Non gli abbiamo mai fatto sbagliare una mossa» spiega Montante, con orgoglio, in una colorita intercettazione. La prima sentenza definisce il ruolo dell’imprenditore: «È stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un’antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali».

Non mafia bianca, ma «trasparente». Montante, nella sua villa di Serradifalco, entroterra siculo, accumulava faldoni con inarrivabile scaltrezza, grazie all’acquisita fama e le buonissime entrate nella magistratura. Così, ha mosso i fili dell’antimafia. Come lui, l’ex senatore Beppe Lumia: mente fina, regista oscuro, ideatore della candidatura di Crocetta nel 2012. Già presidente della Commissione parlamentare antimafia, viene tirato in ballo in inchieste e intercettazioni: continuamente evocato, giudiziariamente illeso, politicamente defunto. Dopo 24 anni filati in Parlamento, il Pd nel 2018 decide di non ricandidarlo.

La farfantaria viene seppellita da un’altra commissione antimafia: quella siciliana, guidata da Claudio Fava, figlio del giornalista Giuseppe, illustre vittima di Cosa nostra: «Una lunga stagione di anarchia istituzionale, una deregulation perfino ostentata, una promiscuità malata fra interessi privati e privati». L’antimafia diventa arma acuminata: «Agitata come una scimitarra per tagliare teste disobbedienti e adoperata come salvacondotto per se stessi attraverso un sillogismo furbo e malato: chi era contro di loro, era per ciò stesso complice di Cosa nostra». Ed è sempre una relazione della commissione guidata da Fava che ha oscurato un’altra stella del firmamento: Giuseppe Antoci, ex presidente del parco dei Nebrodi, vittima di un attentato a maggio 2016. E, da quel momento, indiscussa e attivissima icona. Tanto da meritare perfino l’onorificenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’antimafia siciliana riformula: piuttosto che un attentato, sembrano più probabili l’«atto puramente dimostrativo» o la «simulazione».

Mistificazione ormai conclamata è invece quella di Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Un’ossequiata sacerdotessa dell’antimafia, condannata a otto anni e sei mesi per aver gestito i beni confiscati a Cosa nostra come cosa propria. Ora si attende la sentenza d’appello, dove l’accusa ha chiesto 10 anni. Tempi bui anche per il suo grande accusatore: Pino Maniaci, fondatore di Telejato. La sua tv antimafia ha appena chiuso, mentre il giornalista è stato condannato un anno fa per diffamazione. Una bazzecola, viste le iniziali accuse di estorsione. Da cui viene assolto grazie alle combattive arringhe di Antonio Ingroia: già pm antimafiosissimo, aspirante politico, valente avvocato.

Parabola illuminante, la sua. Nel 2012 è un divo della lotta ai boss: dal processo sulla trattativa tra Stato e boss, smontato in appello a settembre 2021, alle ospitate nei talk show, come integerrimo eroe. Decide dunque di usare questo bendidio. Si candida a premier. Ma il suo partito, Rivoluzione civile, si ferma al 2 per cento. Niente Parlamento. Ma la sopravvenuta passionaccia resta. L’altro campionissimo della legalità, l’allora governatore Crocetta, ne coglie le immense potenzialità. Lo nomina al vertice di Sicilia e-Servizi, ramo informatizzazione. Mantiene l’incarico fino a febbraio 2018. Pochi mesi dopo, si ripresenta alle politiche con «Lista del popolo per la Costituzione»: al Senato ha lo 0,03 per cento, alla Camera ancora meno. Non pago, nell’autunno 2020 si candida più modestamente a guidare Campobello di Mazara, comune nel trapanese, sempre in nome dei suoi trascorsi. Viene travolto però dal sindaco uscente, che ottiene il quadruplo dei voti. Nel frattempo, perfino per lui, giunge il contrappasso. A novembre 2020 viene condannato in primo grado a un anno e dieci mesi, per avere incassato rimborsi non dovuti da capo della partecipata. La carriera forense prosegue comunque a gonfissime vele. Dopo Maniaci, l’ex pm è stato ingaggiato dalla novantaquattrenne Gina Lollobrigida, sex symbol degli anni Cinquanta, accusata dal figlio di venire circuita dall’aitante factotum.

Statene certi, però: il successo politico è solo rinviato. Oggi più che mai, l’isola avrebbe bisogno di Ingroia. Mentre gli elettori continuano a ignorarlo, in Sicilia tornano a a dettar legge tre vicerè. Due hanno scontato la condanna per concorso esterno: Marcello Dell’Utri, fu senatore forzista, nonché Totò Cuffaro, già governatore. È stato invece appena assolto dalla stessa accusa, dopo decennale odissea, un altro ex presidente della Regione: Raffaele Lombardo. Tutti li cercano, tutti li vogliono. Dall’esilio tunisino, Crocetta commenta: «Non vedo lo scandalo. Io non criminalizzo nessuno». E così sia. L’antimafia riposi in pace.

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