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L’estate del governo effetto Stakanov

L’estate del governo   effetto Stakanov

Al lavoro su vari dossier (dal Fisco alla tassa sugli extraprofitti) l’esecutivo ha ribaltato i tradizionali stop balneari. E, in «vacanza» di concretezza del centrosinistra, è così attivo che, al suo interno, coltiva distinguo e inerzie. Un po’ di confusione sotto il cielo, come diceva Mao, può risultare eccellente…


«Adesso ci occupiamo anche di cioccolatini». Un decano leghista butta lì la battuta sotto l’ombrellone per ricordare l’ingresso di Invitalia – l’azienda pubblica per lo sviluppo industriale – in Pernigotti e testimoniare l’interventismo del governo, che invece di andare in ferie ha terremotato tradizioni, certezze, assopimenti tradizionali della politica italiana sbilanciata verso il limoncello. Giorgia Meloni ha voluto dare un segnale forte di discontinuità rispetto al passato tutto «pinne, fucile e occhiali» già da metà luglio e offrire lampi di stakanovismo e di destra sociale, prendere in contropiede l’opposizione e mandarla in vacanza priva di certezze tematiche.

Riforma fiscale, riforma delle licenze dei taxi, accelerazione verso il Ponte sullo Stretto, soprattutto tassa sugli extraprofitti delle banche. «Ma allora siete diventati socialisti» ha commentato Giuseppe Conte spiazzatissimo. È accaduto qualcosa di meno ideologico e più sistemico: la decisione sancisce il ritorno anche in Italia di una tendenza statalista (Stati Uniti, Francia, Spagna e Paesi scandinavi sono i campioni occidentali della New wave politica), conferme di uno Stato interventista dopo il ventennio di turboliberismo, di fatto finito con l’arrivo della pandemia. L’esecutivo ha scosso la pianta con irruenza e i frutti sono arrivati per lo sconcerto degli stessi tifosi conservatori. Non certo di Matteo Salvini, che in quest’estate sottotraccia (poco Papeete, più Forte dei Marmi e Polignano) è tornato ad avere un ruolo centrale nella dialettica della maggioranza, ispirando la sterzata, di fatto intestandosi il siluro agli istituti di credito con le casse strapiene di denaro derivato dagli aumenti continui dei tassi d’interesse da parte della Bce.

«Se Christine Lagarde non sa fare il suo mestiere la aiutiamo noi» avrebbe detto il leader della Lega agli amici, soddisfatto per il risultato e soprattutto per il messaggio indotto, subito raccolto dalla premier: «Chi parla di socialismo ha una concezione distorta del libero mercato. Non ricordo socialisti che tassano le banche, solo socialisti che danno soldi pubblici alle banche». Persino il presidente del più importante istituto di credito italiano, Carlo Messina (Intesa Sanpaolo), aveva previsto la mossa e scritto agli azionisti in tempi non sospetti: «È in discussione l’ipotesi di un aumento della tassazione sugli utili delle banche, nell’attuale situazione di incremento dei tassi da parte della Bce. Osserveremo con rispetto ogni decisione presa dal governo. Allo stesso tempo auspichiamo che i prelievi aggiuntivi vengano utilizzati per far fronte alla maggiore emergenza sociale del Paese, quella della crescita delle disuguaglianze».

Nonostante questo in Forza Italia – nata sui valori liberali per estrazione culturale berlusconiana – non l’hanno presa bene. Paolo Barelli, capogruppo alla Camera, è stato il primo a contestare gli alleati: «Un provvedimento che andava valutato meglio e che dovremo migliorare, per aiutare i cittadini sui mutui e sulle retribuzioni». Mentre Fabio Rampelli in preda all’entusiasmo annunciava «Adesso tassiamo anche gli altri extraprofitti» (Mario Draghi detto l’Infallibile lo fece con le società del settore energetico creando un buco di bilancio), il numero uno azzurro, Antonio Tajani, ha messo il dito nella piaga: «Ha sbagliato la Banca centrale europea ad alzare i tassi in continuazione ma noi siamo l’anima liberale del centrodestra, non possiamo sembrare ideologicamente contro le banche. Mai confonderci con Nicola Fratoianni ed Elly Schlein».

Mentre i climatologi annunciavano la transizione verso il giudizio universale e i giornali taroccavano i colori dei grafici del caldo africano, il governo riusciva in un’impresa più unica che rara: in assenza di opposizione se l’è costruita in casa. Quello sugli istituti di credito è solo un esempio. Ce n’è un altro paio, illuminanti. Travolto dalla sceneggiata da palcoscenico («Io ho l’eco-ansia, lei non ha paura per i suoi nipoti?») di una lacrimevole attrice di professione, il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin si è sciolto in un pianto degno di Elsa Fornero e fra i singhiozzi ha invitato a un tavolo istituzionale gli imbrattatori di monumenti di Ultima Generazione.

Gli stessi per i quali il ministero dell’interno sta ventilando un inasprimento delle pene. Gli stessi che spingono per la transizione ecologica imposta dalla sinistra eurolirica a Bruxelles; contro di loro (sulle norme per le abitazioni e per le auto a motore caldo) il centrodestra è compatto nel votare No. Forse Pichetto non è al corrente di ciò che pensa Fratin.

L’opposizione dentro la maggioranza è un elisir di lunga vita inventato dalla Democrazia cristiana andreottiana negli anni d’oro delle convergenze parallele; vederla ripescare nel 2023 è stupefacente, forse geniale. Come se Pep Guardiola facesse giocare il Manchester City con il buon vecchio catenaccio.

Un altro lampo di destra sociale è quello di Adolfo Urso, soprannominato Adolfo Urss, che ha messo nel mirino Ryanair di Michael O’Leary («È insofferente alle regole, il mercato non è il Far West») fra le critiche indignate della destra Clint Eastwood e delle platee liberali più accreditate. L’Istituto Bruno Leoni ha accusato Palazzo Chigi di «atteggiamento punitivo» e di «voler disturbare chi vuole fare». Un ennesimo esempio di opposizione dentro la maggioranza riguarda invece le prudenze post-pandemiche e le ambiguità ministeriali del dicastero della Salute, retto da Orazio Schillaci, che nonostante le critiche interne non riesce a liberarsi dei fantasmi di Roberto Speranza. La chiamano dialettica.

Voli in parapendio e sorprendenti sterzate, il governo Meloni non disdegna il brivido neppure nell’aria sospesa di fine agosto. La premier si è rifugiata nella campagna salentina di Ceglie Messapica, masseria Beneficio (dove sennò?), con una puntata dal premier Edi Rama in Albania. In vista della ripresa del 5 settembre, ha lasciato furbescamente aperto un dossier che toglie il sonno ai suoi carissimi nemici del centrosinistra: il salario minimo. I nove euro più contrastati dai tempi della scala mobile. Una spina nel fianco, anche perché Giorgia ha chiesto per la riapertura delle Camere la consulenza del Cnel, storicamente il più inutile degli enti inutili, inserito in ogni spending review e regolarmente sfilato all’ultimo da una pietosa manina. Ora è guidato da Renato Brunetta che ha la possibilità di dimostrare d’avere rianimato la mummia.

Sul salario minimo il Pd sta rovinando le ultime notti stellate nei capanni «five stars» di Capalbio, sta mandando in acido il Sassicaia del ristorante-fattoria di Monica Cirinnà. Il Nazareno ha organizzato una raccolta di firme ma il sito destinato a ospitarle è spesso in crash. Invece di osteggiare la techno-disfida italiana fra Elon Musk e Mark Zuckerberg, Schlein farebbe bene a farsi consigliare da loro un tecnico bravo. I nove euro vengono ritenuti «un potenziale grande risultato» da Conte ma non convincono i sindacati, preoccupati perché «quella cifra rischia di essere percepita come una regola, con imbarazzanti retromarce salariali».

Come al solito la sinistra è combattuta e insonne: in Costituzione c’è già la definizione di salario minimo, quantificarlo significherebbe impedire ogni altra difesa. Brando Benifei, capodelegazione del Partito democratico a Bruxelles, invita Meloni a «ricordare quando faceva la baby sitter». Senza accorgersi che la proposta attuale esclude il lavoro domestico. Carlo Calenda approva tutto, nel tentativo di mettere a segno il colpo che gli è più congeniale: salire sul taxi rosso per farsi trasportare fino alle prossime Europee.

Lampi di destra sociale, convergenze parallele 3.0 e il solito psycho-rovello rosé nel vedere che Meloni si è appropriata (ribaltandone i punti cardinali) del famoso motto di François Mitterrand: «Solo un governo di sinistra può fare politiche di destra». Leitmotiv verso un autunno che, come al solito, si preannuncia caldo ma finirà per essere tiepido.

Caratterizzato da una legge di bilancio con i forzieri semivuoti, le rate del Pnrr in arrivo con il contagocce (la gastrite di Bruxelles nei confronti del centrodestra italiano è cronica) e la lunga rincorsa verso la campagna elettorale delle Europee meno noiose di sempre. Forse perfino affascinanti, strategiche, rivoluzionarie. Dove anche la quasi nazionalizzazione dei gianduiotti può essere un segnale importante. n

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