Home » Attualità » Economia » Come dovrebbe rispondere l’Italia all’allarme della Bce

Come dovrebbe rispondere l’Italia all’allarme della Bce

Come dovrebbe rispondere l’Italia all’allarme della Bce

Rubrica Portugal Street

La Banca centrale europea mette in guardia contro una nuova recessione. E i dati del Censis segnalano il rischio chiusura di 500.000 imprese. Ecco perché occorre un cambio di direzione.


La seconda ondata della pandemia (e se ne annuncia anche una terza per l’inizio del nuovo anno) sta modificando le attese delle imprese e delle famiglie nonché aumentando le incertezze sulle prospettive dell’economia. È proprio di oggi l’allarme della Bce che nel suo bollettino mensile evidenzia come i rischi di una nuova recessione stiano aumentando e, conseguentemente, la ripresa tende a perdere slancio.

Gli ultimi indicatori economici su produzione industriale e occupazione – sia a livello europeo sia a livello italiano – segnalano un deterioramento della salute economica dell’Italia; i dati pubblicati oggi dal Censis segnalano il rischio di chiusura per quasi 500.000 piccole e medie imprese. A testimonianza ulteriore di un inaspettato peggioramento vi è la vicenda della legge di bilancio, ormai approvata circa tre settimane fa dal Consiglio dei ministri e non ancora giunta in Parlamento, surrogata da un serie di decreti di «pronto intervento» (i cosiddetti «decreti ristori»).

Un ritardo dovuto alla necessità di ricalibrare il quadro economico e comprendere le poste finanziarie necessarie per il 2021. E nel frattempo si parla di un ulteriore scostamento di bilancio. In definitiva, una situazione certamente complessa da affrontare ma nella quale si sta scontando un difetto di programmazione e una incapacità di vedere più in una prospettiva di medio periodo che solo in emergenza. Né si può fare affidamento solo sulle risorse europee poiché si rischia di rendere l’Italia eccessivamente dipendente da aiuti esterni, una prospettiva da evitare.

In questo quadro, se si analizza il mercato del lavoro ne scaturisce un quadro poco confortante. Tutti gli indicatori volgono per aumento degli squilibri e attenuazione delle dinamiche positive. Disoccupazione che crescerà, numero di occupati che tende a diminuire, giovani e donne sempre più esclusi, utilizzo degli ammortizzatori sociali in aumento, mismatch tra domanda e offerta in crescita.

Un quadro che evidenzia l’insufficienza delle politiche fin qui adottate e la necessità di un repentino cambio di direzione. Le soluzioni di breve periodo fin qui adottate devono lasciare spazio ad azioni di medio periodo in grado di dare certezza alle imprese, di garantire i lavoratori, di accompagnare le sane dinamiche del mercato del lavoro senza costringerle in abiti non adatti o che possono generare peggiori risultati.

Non vi è discussione alcuna che per tutto il 2021 occorre prevedere un massiccio intervento della Cassa Integrazione (nella versione più semplificata possibile) e un rafforzamento significativo della Naspi. E il Governo farebbe bene a stanziare su queste poste significative risorse.

Altrettanto importanti sono gli incentivi alle assunzioni (a patto che siano per tutte le tipologie di contratto), in particolare se indirizzati verso giovani e donne. Non rinviabili sono alcuni interventi di semplificazione sulle tipologie contrattuali, in specie il contratto a termine e il contratto di apprendistato (0che potrebbe essere rivisto), con l’obiettivo di un loro più diffuso utilizzo in questa fase dell’economia.

Poi vi è il capitolo delle politiche attive. Qui occorre intervenire in maniera più incisiva e anche con alcuni aggiustamenti strutturali, atteso che l’architettura del Jobs Act si sta mostrando abbastanza inefficiente. Condizione preliminare è riprendere un intenso dialogo con le Regioni e ricostruire insieme la rete dei servizi, nel rispetto della loro autonomia. Ciò significa elaborare insieme un sistema informativo unico, trasportarlo nei centri per l’impiego, implementarlo con ulteriori applicazioni a livello territoriale, valorizzare i cosiddetti navigator quali operatori mobili dei centri dell’impiego.

Ci vogliono risorse finanziarie, modifiche normative, pratiche di impiego diverse. Si tratta di o sforzo che distingua – finalmente – il reddito di cittadinanza dalle politiche attive, restituendo a queste ultime la loro piena capacità di intervento, in primo luogo intervenendo sul mismatch tra domanda ed offerta.

È di queste ore l’ennesima ricerca che mostra la distanza tra richieste delle imprese e capacità dei lavoratori: strategico sarebbe l’apporto che può dare il Fondo Nuove Competenze, se non si impantana (come già sembra) nelle strade della burocrazia. In questo quadro va necessariamente e rapidamente rivista la struttura e governance dell’Anpal, al momento con un basso livello di efficienza; il modello del Jobs Act non funziona (ma già all’epoca era chiaro che sarebbe stato inefficiente e fonte di problemi).

Infine, lo strumento di intervento più adatto deve essere nuovamente reso operativo: il riferimento, ovviamente, è all’assegno di ricollocazione, potente mezzo (ancora una volta se reso semplice) per facilitare l’inserimento nel mercato del lavoro e per mobilitare una cooperazione più rafforzata tra pubblico e operatori privati.

L’anno che abbiamo davanti sarà difficile ma non privo di opportunità lavorative: il «sussidiland» è un incubo che l’Italia non si può permettere. Una società attiva, anche in una situazione di crisi, è la sola via di uscita che permette di ricostruire il Paese sulla base del binomio crescita-occupazione. Occorre fare in fretta ma fare bene, non una equazione impossibile.

© Riproduzione Riservata