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Giustizia è sfatta

Giustizia è sfatta

Quasi trent’anni di processi con gravissime accuse di mafia finiti in un’assoluzione: un incubo che ha segnato la vita di Calogero Mannino. È solo l’esempio più recente di un danno difficilmente risarcibile. Il sistema giudiziario è disseminato di ritardi, accanimenti inspiegabili, teoremi mche non reggono alla prova dell’aula. E che non hanno alcun riflesso sulla carriera di chi deve garantire il diritto.


Aveva 53 anni e i capelli neri la mattina in cui gli è arrivato il primo avviso di garanzia per concorso esterno in associazione mafiosa. Ha 81 anni e i capelli bianchi come la neve oggi, che la Cassazione l’ha assolto dall’ultima di una serie infinita d’accuse e da un turbine di processi così intricato da sembrare un labirinto. Il risultato finale è uno solo, netto, assoluto: Calogero Mannino, cinque volte ministro per la Democrazia cristiana, non è mai sceso a patti con la mafia. Peccato che per dimostrarlo ci siano voluti 28 anni. La vita nel frattempo è volata, insieme alla carriera politica e a quasi tutti i suoi averi, spesi tra avvocati e periti.

L’ultima sentenza dell’ultimo processo subìto da Mannino, tecnicamente un «abbreviato» che in realtà è durato oltre otto anni, stabilisce in particolare che l’ex imputato non ha mai dato il via né ha mai minimamente partecipato alla presunta «trattativa» tra Stato e Cosa nostra che nel biennio 1992-93, secondo la Procura di Palermo, avrebbe posto fine alle stragi di mafia in cambio dell’alleggerimento del 41 bis: il carcere duro cui erano e sono costretti boss e gregari delle cosche. Per questa accusa, oggi demolita dai supremi giudici, è però in corso un parallelo processo palermitano. Dove una decina d’imputati, tra i quali l’ex senatore Marcello Dell’Utri e uomini delle istituzioni come il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Antonio Subranni, aspettano ancora d’essere giudicati in secondo grado.

È questa, la giustizia italiana, che a volte riesce a impazzire peggio della maionese. Se si scava appena sotto la superficie della realtà giudiziaria, poi, i grumi delle assurdità gonfiano ed esplodono come petardi nella notte di Capodanno. Mannino, infatti, era già stato assolto in appello, e nelle motivazioni i giudici di secondo grado si dicevano certi fosse «emerso quale vittima designata della mafia, proprio a causa della sua specifica azione di contrasto a Cosa nostra». Quanto alla presunta «trattativa» tra Stato e mafia, in secondo grado i giudici sostenevano che «la tesi della procura era «non solo infondata, ma anche totalmente illogica e incongruente con la ricostruzione complessiva dei fatti». Infondata. Illogica. Incongruente. Davanti a scudisciate come queste, perché un’accusa va avanti? Tra il ministro con i capelli neri e l’anziano imbiancato di oggi, peraltro, c’è stata anche l’umiliazione del carcere. Nel 1995, per Mannino, la Procura di Palermo ha chiesto e ottenuto l’arresto: nove mesi in carcere e altri 13 agli arresti domiciliari. Risarcimenti per quella parte di vita buttata alle ortiche? L’imputato scuote le spalle: «È la fine di un’ossessione da parte di alcuni pubblici ministeri», dice. Speriamo sia davvero così.

Anche Fabio Riva, uno dei componenti della famiglia che dal 1995 era divenuta proprietaria dell’Ilva di Taranto, è stato appena assolto dall’accusa di bancarotta fraudolenta per il crac della società Riva Fire, la holding che controllava il suo gruppo siderurgico. Un’assoluzione piena: la Corte d’appello di Milano ha stabilito che «il fatto non sussiste». Riva era stato già assolto in primo grado, nel 2019: le motivazioni della prima sentenza sostenevano che i Riva tra il 1995 e il 2012 avessero investito «oltre un miliardo di euro» in migliorie ambientali e «oltre 3 miliardi per l’ammodernamento e la costruzione di nuovi impianti». Vi si leggeva, soprattutto, che «non c’era stato il depauperamento generale» contestato dall’accusa. Al contrario, la famiglia Riva aveva «condotto la società in vetta al mercato siderurgico europeo» e pianificava un importante progetto di rilancio che non si è verificato solo «per l’avvenuto commissariamento ambientale di Ilva».

Queste parole, confermate dall’appello, oggi sono il negativo della fotografia accusatoria scattata dalla Procura di Taranto, che imputa alla famiglia Riva di aver gestito lo stabilimento siderurgico con la logica del «minimo sforzo e massimo guadagno», al punto da causare il disastro ecologico e sanitario che è al centro del processo «Ambiente svenduto», ancora in corso. I magistrati tarantini nel 2013 avevano ottenuto il sequestro di 8,1 miliardi di euro dei Riva: «l’ingiusto risparmio» che erano certi la famiglia avesse realizzato non ammodernando la fabbrica. Il sequestro era poi stato annullato dalla Cassazione, ma ora anche la giustizia milanese conferma che i Riva investivano il giusto e non spoliavano l’azienda. Insomma, è la solita giustizia schizofrenica. Intanto, però, la vicenda giudiziaria ha causato disastri economici: dopo il difficile passaggio proprietario ad ArcelorMittal, ora l’Ilva sta tornando sotto il controllo dello Stato, che per arrivare al 60 per cento del capitale dovrà pagare più di un miliardo. Intanto la produzione italiana di acciaio è crollata, e il peso dell’Ilva si è ridotto da oltre la metà del totale a meno di un quarto. Se questa è la giustizia, forse rischia di essere meglio un’ingiustizia.

Un’ingiustizia sembra aver subito l’ex ministro dell’Agricoltura Nunzia De Girolamo: nel 2013 era stata accusata di associazione per delinquere, concussione e scambio elettorale. Per la Procura di Benevento, governava l’azienda sanitaria locale come fosse cosa sua. Anche la De Girolamo, come Mannino, è uscita dalla politica. Ora è stata appena assolta in primo grado, e per dimostrare la sua piena innocenza sono serviti sette anni. Lei, però, dice di essere «rimasta ferma a quel gennaio 2014», e quasi piange. «Avevo 37 anni», prosegue, «ed ero la mamma di una bimba di 18 mesi che è cresciuta con il fango di questo processo, con la sofferenza, con le ingiurie. Mi sono dimessa da tutto e sono stata zitta, perché sono stata educata ad avere rispetto della magistratura. Ci sono stati giorni, però, in cui avrei aperto la finestra e mi sarei buttata di sotto. Mi ha salvata soltanto mia figlia».

Chi non ha mai smesso di lavorare è stato Vittorio Zappalorto. Oggi è prefetto di Venezia, ma è appena uscito da un’assurda «indagine preliminare» iniziata tre anni fa, quando ancora era il rappresentante del governo a Gorizia: accusato di associazione per delinquere e turbativa d’asta, per aver sostituito con un consorzio locale la cooperativa siciliana che gestiva le attività in due centri per immigrati a Gradisca d’Isonzo, Zappalorto è stato assolto perché un giudice ha stabilito che, al contrario, era riuscito «a risolvere la problematica gestione della cooperativa giungendo alla risoluzione anticipata del contratto tramite una transazione». Il giudice non s’è fermato lì: ha definito l’architettura accusatoria come «un apodittico e grossolano teorema in base a cui qualunque funzionario della prefettura avesse avuto parte della vicenda diventava, ipso facto, un concorrente nei vari reati». Lui, il prefetto indagato, ha sempre continuato a fare il prefetto. Ma ammette che sono stati anni difficili: «Non avevo più il coraggio di stringere la mano a nessuno», sospira.

Grandi o piccole, le storie di malagiustizia continuano a ripetersi. Una sopra l’altra, ormai formano più di una colonna infame: sono quasi una torre di Babele. L’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, è uno che d’ingiustizie se ne intende visto che negli anni Ottanta era tra i difensori di Enzo Tortora, ma è ugualmente indignato: «In magistratura non paga mai nessuno», sbotta, «neanche dal punto di vista professionale, della carriera. L’Italia è l’unico Paese al mondo che non prevede valutazioni di merito sulla qualità professionale del magistrato. Così un pm istruisce un procedimento che viene demolito, ma intanto ha causato danni enormi agli indagati: perché non deve subire la minima ricaduta sulla sua carriera?».

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