Le decisioni contro l’Arabia Saudita prese sull’onda della nota conferenza di Matteo Renzi a Riad nel bel mezzo della crisi ci costa miliardi di euro di esportazioni. Ma al Governo, preso da lotte interne e personali tutto questo non interessa, ignaro ed incurante delle conseguenze economiche e di rapporti internazionali.
La recente revoca, attuata dal governo italiano, delle esportazioni di armamenti all’Arabia Saudita e agli Emirati Arabi Uniti pone un problema di non poco conto. Soprattutto se si prendono in considerazione le motivazioni fornite dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. “La nostra azione di governo è ispirata da valori e principi imprescindibili. Lo stiamo facendo anche in queste ore, lavorando con serietà e impegno. Oggi vi annuncio che il governo ha revocato le autorizzazioni in corso per l’esportazione di missili e bombe d’aereo verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Un atto che ritenevamo doveroso, un chiaro messaggio di pace che arriva dal nostro Paese”, ha scritto su Facebook il titolare della Farnesina. “Il rispetto dei diritti umani”, ha aggiunto, “è un impegno per noi inderogabile. Continuiamo a lavorare seguendo la strada maestra”.
Ora, a qualcuno non è sfuggita la tempistica, visto che la revoca è avvenuta nelle stesse ore in cui deflagrava la spinosissima questione del viaggio effettuato da Matteo Renzi a Riad. E, da questo punto di vista, il dubbio che – sotto sotto – la decisione dell’esecutivo giallorosso possa leggersi come una sorta di ripicca verso il senatore di Rignano oggettivamente si pone. Certo: qualcuno dirà che anche l’amministrazione Biden abbia deciso – mercoledì scorso – di congelare la vendita di armi ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Sennonché, in quel caso, si tratta di una sospensione temporanea, visto che lo stesso neo segretario di Stato americano, Tony Blinken, ha definito tale mossa “tipica” per un’amministrazione entrante. Segno che quindi il Dipartimento di Stato voglia prima riesaminare il quadro generale dell’export militare alle monarchie del Golfo e – magari – esercitare su di esse una pressione politica per conseguire determinati obiettivi.
Perché, in definitiva, è così che si conduce una politica estera. Rifiutandoci di credere (almeno fino a un certo punto) che il governo abbia agito contro i sauditi per un dispetto nei confronti di Renzi, la giustificazione data da Di Maio per la revoca lascia francamente perplessi. E lascia perplessi non tanto per la posizione in sé stessa (di per sé anche legittima), ma perché non si capisce all’interno di quale quadro strategico tale mossa venga ad inserirsi. Uno Stato non è una onlus e deve quindi prefiggersi obiettivi concreti: se anche si vuole perseguire una politica estera maggiormente orientata nei confronti dei diritti umani, ciò richiede una strategia sostenibile in termini di salvaguardia dell’interesse nazionale e un comportamento coerente. In caso contrario, si scade nel velleitarismo e nell’inefficacia.
Ora, sul piano dell’interesse nazionale non è esattamente chiaro come debba essere interpretato il blocco dell’export all’Arabia Saudita, visto che a rimetterci saranno innanzitutto i dipendenti di Rwm Italia, mentre altri Stati saranno prevedibilmente pronti a rimpiazzarci (a partire dal Regno Unito). Certo: si potrebbe magari ritenere che la mossa anti-saudita si inserisca all’interno di una più complessa strategia mediorientale del nostro Paese. Magari sarà anche così, ma al momento non è che si capisca granché: anche perché l’Italia, nei principali dossier locali degli ultimi tempi (dall’Iran al Libano), si è rivelata sostanzialmente irrilevante. Un’Italia che – tra l’altro – non riesce ad avere una strategia incisiva neppure in Libia, dove il nostro ministro degli Esteri da un anno e mezzo parla soltanto di “dialogo”, mentre ben altri attori spadroneggiano spregiudicatamente su quel territorio. In secondo luogo, c’è un tema di coerenza: altro elemento fondamentale per una politica estera credibile. Se l’obiettivo dichiarato del governo giallorosso è quello della difesa dei diritti umani, non si capisce allora per quale ragione l’Italia esporti armi in Paesi come Egitto, Turkmenistan e Turchia: non esattamente Stati dai saldi valori democratici.
Le valutazioni su una politica estera possono variare a seconda che si preferisca una linea improntata alla Realpolitik o una incentrata sulla difesa dei diritti umani. E però la valutazione arriva, per così dire, a posteriori, quando una determinata politica estera viene concepita e di conseguenza attuata. Nel caso italiano invece, da un anno e mezzo, non si capisce onestamente la logica che muove il nostro governo, che se ne resta amletico sui più disparati fronti (dalla Libia, all’Egitto, passando per la Russia). D’altronde, che le idee siano un po’ confuse è testimoniato anche dalla sostanziale (oltre che sconcertante) equiparazione, effettuata di recente dal premier Giuseppe Conte, tra Stati Uniti e Cina. E intanto il peso internazionale dell’Italia si alleggerisce sempre di più.
Lo stop alle nostre armi verso gli Emirati e i Sauditi ci costa soldi e posti di lavoro
Che siamo una nazione ambigua e pervasa da troppa ideologia è cosa nota. La fabbrica di armamenti Rwm Italia Spa, con sede a Ghedi (BS) e impianti produttivi a Domusnovas (Sardegna), peraltro controllata dal gruppo tedesco Rheinmetall, ha annunciato ricorso contro il nostro governo Conte due per aver bloccato le licenze di esportazione verso gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Per la prima volta infatti, venerdì scorso è stata cancellata l’autorizzazione a produrre e vendere un lotto di 12.700 bombe d’aeroplano, notizia che ha ricevuto il plauso dei pacifisti e di diverse organizzazioni non governative. Dopo una prima sospensione avvenuta lo scorso anno in attesa di decisioni definitive, il 29 gennaio era arrivato lo stop definitivo. Ma di fatto il blocco colpisce soltanto questa azienda, che nel mondo e in Italia non è certo l’unica a costruire ordigni, penalizzando il lavoro di tecnici italiani specializzati.
Una mossa che rischia di far prendere decisioni drastiche alla proprietà di Rwm, che potrebbe delocalizzare dove non accadono certi voltafaccia, e soprattutto non ferma l’uso di armi da parte dei committenti verso i loro bersagli, siano essi militari oppure, malauguratamente, dei civili. Se poi pensiamo che il momento storico è tra quelli che, tra effetti della pandemia e situazione economica, non incentiva certamente l’impiego di manodopera, la misura presa dal nostro governo risulta meramente politica e dannosa perché rischia di farci perdere ulteriormente capacità lavorative specializzate a vantaggio di altre nazioni. Senza contare che l’interruzione di una fornitura legata a un contratto autorizzato da anni costituisce un precedente grave che distrugge la credibilità e l’affidabilità italiana in tutto il mondo, specialmente quando il cliente è di quelli corteggiati da un lungo elenco di produttori che arrivano da Usa, Francia, Cina e Russia.
Oltre a mettere in difficoltà i cento operai di Domusnovas attualmente in cassa integrazione, le loro famiglie e altrettanti collaboratori esterni, il blocco mostra un comportamento quantomeno sclerotico da parte del governo. Che senso ha, infatti, autorizzare per tre anni la fornitura e poi, dopo un anno e mezzo di sospensione delle decisioni, fermarla per ragioni puramente ideologiche? La speranza è ovviamente che il ricorso sia accolto, sempre che l’evoluzione delle consultazioni in atto condotte da Fico non porti all’arrivo di ministri ancora più pacifisti. La rappresentanza sindacale dei lavoratori di Rwm ha così commentato la vicenda: “Una situazione paradossale, inverosimile e vergognosa, il Governo ci toglie definitivamente il lavoro. Ci lascia a casa, additandoci come gli unici responsabili dei conflitti internazionali, mortificando il nostro lavoro che da anni svolgiamo con grande serietà e professionalità, senza assumersi le proprie responsabilità, senza che si sia adoperato per trovare le dovute soluzioni a tutela dei posti di lavoro di un’azienda che oggi rappresenta un assetto strategico di rilevanza europea. Siamo preoccupati per quello che nel futuro saranno le decisioni della proprietà che, a causa di un’assenza di programmazione da parte del Governo sull’industria bellica, possa decidere di non attuare più nessun tipo d’investimento fino ad arrivare a un totale disimpegno nel nostro territorio, già martoriato e penalizzato da scellerate precedenti decisioni politiche”. Per questo la Rsu chiede al Governo di “assumersi le proprie responsabilità mettendo in campo tutti i soggetti e tutte le iniziative possibili a tutela dei posti di lavoro, prendendo una volta per tutte una chiara posizione su cosa intende fare dell’industria bellica in generale e in particolare del nostro stabilimento”.
Sui gruppi pacifisti presenti sui social media la notizia è stata festeggiata e motivata con frasi assurde che dimostrano completa ignoranza dei meccanismi e delle dinamiche dei mercati militari. Si legge: “A quegli operai fate fare altro” oppure “Abbiamo salvato la vita ai bambini dello Yemen”
La verità è che l’unico effetto di questa manovra è quello di continuare a demolire lentamente l’industria della Difesa italiana privandola dei mercati più interessanti e remunerativi, perseguita ad opera di esponenti del Movimento 5 Stelle, di una parte del Partito Democratico con l’aiuto di correnti pacifiste. La vicenda dell’uso di armamenti prodotti in Italia sulla popolazione civile in Yemen da parte degli arabi risale a quattro anni fa, quando il New York Time aveva diffuso un filmato i cui contenuti erano stati in parte forniti proprio da fonti italiane. Inizialmente il nostro governo aveva rassicurato sull’impiego esclusivamente militare da parte di arabi ed emiratini, facendo presente che su quei clienti non pesava alcun embargo. Ora la decisione dei tribunali rischia di essere presa su basi distorte, poiché se gli Uae e l’Arabia Saudita usano queste bombe su popolazioni inermi, a esprimersi deve essere l’Onu con provvedimenti coordinati, in modo che nessun produttore possa procedere con le consegne.
