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Wainer Vaccari, il ritratto dell’inquietudine

Wainer Vaccari, il ritratto dell’inquietudine

Un artista che non segue la corrente ma mette al centro della sua ricerca la figura umana. E, con un tratto onirico e surreale, racconta la nostra condizione imperfetta.


Lentamente gli artisti, non più giovani maestri, ripopolano le sale di Palazzo delle Albere, del Mart di Rovereto, della Galleria Civica di Trento: artisti che io seguo da anni, prima Lino Frongia e Nicola Samorì, ora Wainer Vaccari. Prossimamente Margherita Manzelli e Adelchi Riccardo Mantovani. Ognuno di loro ha intelligenza e fantasia, ma soprattutto maestria. Altri hanno raggiunto risultati con l’ingegno, la provocazione, l’interpretazione di tendenze prevalenti. Loro no: hanno seguito strade difficili, talvolta arrestandosi in sensi unici, ma sempre perseverando per la maggior gloria della pittura.

I tempi erano favorevoli. Critico d’arte dimenticato, Luigi Carluccio, direttore della Biennale nel 1980, fece un gesto liberatorio, che i tempi chiedevano: espose l’ultima leggenda vivente della grande pittura, capace di contrapporsi alle avanguardie, sia della prima che della seconda metà del Novecento: Balthus. Che era come dire: nello stesso tempo c’è spazio per Burri e per Balthus. Per la fine e per l’inizio.

E, all’inizio, si ritrovarono, come all’aurora di un nuovo giorno, alcuni solitari o riuniti in piccoli gruppi che avevano usato il pennello e l’accademia contro i loro stessi maestri. Sembravano impartire le ultime lezioni della Scuola Romana, di Carlo Socrate, di Antonio Donghi, di Nino Bertoletti, di Alberto Ziveri, e anche di Oscar Ghiglia.

Maestri dimenticati, travolti dalle nuove ricerche che riducevano il figurativo all’illustrativo. Eppure, in questi ultimi grandi pittori, c’erano una sintesi e una coscienza della forma che non potevano essere cancellate, e mandavano gli ultimi segnali intercettati dai neofiti. Wainer Vaccari, con Salvo che veniva da una riconosciuta esperienza concettuale, è uno dei primi, anche di generazione più alta.

Nato nel 1949, è forse il solo artista italiano ad avere perfetta coscienza della «Nuova oggettività» tedesca, negli stessi anni in cui la importa in Italia Emilio Bertonati con la sua Galleria del Levante, a Milano. I dipinti di quel momento sono la testimonianza di un’esperienza solitaria, maturata in dialogo con i sorprendenti quadri della mostra Iperrealisti americani. Realisti Europei, alla Rotonda della Besana. Inevitabilmente Vaccari viene da una ricerca nella pittura astratta e informale, obbligatoria negli anni Settanta.

Ma l’incontro con Christian Schad orientò l’artista, prima di ogni altro, a dipingere ritratti di implacabile e congelato realismo che passavano attraverso la fotografia, trasfigurandola in una glaciale freddezza. Dichiara lo stesso Vaccari: «Usavo fotografie, non direttamente i modelli, e le opere che ne nascevano perdevano completamente la dimensione di immagine fotografica, trasfigurandosi in altro, in qualcosa di strettamente pittorico».

Tra i suoi clienti si vede un giovane Emilio Mazzoli, che conservo nella mia collezione. L’incontro con il lucidissimo gallerista, che avrebbe governato le tendenze dell’arte contemporanea, è descritto dallo stesso Vaccari nella mitizzazione di quegli anni: «Ricordo uno studente di sociologia in particolare che mi accusò di non aver letto Marcuse, che da pensatore intrinsecamente anti-autoritario, rispecchiava la volontà di cambiamento radicale che animava la protesta dei giovani in tutto il mondo in quegli anni. Io però, che non avevo fatto l’accademia, non vedevo la pittura come un’imposizione del sistema, ma come un’affermazione del mio pensiero più intimo e profondo, una irrinunciabile necessità. Lavoravo in maniera instancabile, giorno e notte, lontano dalle mostre, tenendo duro in quello che sentivo e credevo. A un certo punto ci fu una svolta inattesa: una chiamata di Emilio Mazzoli. Io facevo una vita da bohémien, libera e fatta di arte. Mazzoli aveva visto da un amico un mio quadro, con un bacio fra due figure stilizzate e deformate alla Otto Dix, e mi chiese quanto volessi per acquistare tutta la mia produzione recente».

Non so se Wainer lo ricordi o lo sappia, ma anche questo secondo dipinto con il bacio mi appartiene; è la ricerca che ho fatto dei suoi incunaboli pittorici prima che la sua strada si definisse con la importante personale del 1983, Immagini pompose, profonde, curata, con un bellissimo catalogo di Mazzoli, da Achille Bonito Oliva. Qui, parallelamente al percorso della terza avanguardia, si definisce il linguaggio autonomo, ironico e potente di Vaccari.

Il nesso è ben descritto, in quest’occasione, nella ricostruzione biografico-critica di Gabriele Lorenzoni. In questa sede è marcata la differenza anche dal gruppo di pittori colti e degli anacronisti rispetto ai quali, come Lino Frongia, Vaccari coltiva un’autonomia di ricerca legata all’amore per la pittura che, appunto, gli fa dichiarare: «Credo però ci sia una differenza fondamentale che mi divide da loro: per me la pittura non è stata una scelta meditata, fatta per una precisa ragione di politica culturale, bensì una necessità non derogabile. Io nasco pittore e muoio pittore, non lo faccio in ossequio di una teoria ma in ossequio della mia libertà». Anche in questo caso mi sono mosso sulle piste di Vaccari nei primi anni Ottanta ritrovando, imprevedibilmente all’areoporto di Albenga, il grande telero al centro della prima mostra di Mazzoli: I mercanti.

Il Vaccari che esce da questa esperienza formativa è un grande manierista che si muove in una dimensione internazionale, per gusto e scelte, nelle quali, oltre ai grandi maestri italiani, entrano Diego Velázquez, Rembrandt, Pieter Paul Rubens, come necessari riferimenti di una ricerca che non ha bisogno di contigui appigli novecenteschi. L’ispirazione di Vaccari è monumentale, dialoga con francesi come Gérard Garouste, tedeschi come Hermann Albert, norvegesi come Odd Nerdrum, e forse con il perduto Massimo Rao.

Troppo corto è il Novecento, pur nei grandi esempi come Cagnaccio di San Pietro e Antonio Donghi. L’ossessione di un’umanità che ripete gesti meccanici seguendo percorsi misteriosi, entrando e uscendo da pozze nel terreno, sembra indicare una condizione di irrisolutezza dell’uomo.

È il tema dominante, tra corsi e ricorsi, nella mente di Wainer: «Attorno al 2014 ho intrapreso quella che amo definire “discesa a valle”. Sono tornato cioè gradualmente ai miei soggetti e al mio modo di dipingere degli anni Ottanta e Novanta. Sono di fatto tornato al punto zero, da dove ero partito, con lo stesso modo di vedere il mondo, anche se ovviamente sono maturato e cambiato: non si tratta di un revival, ma di una nuova necessità. Si era infatti esaurita la spinta propulsiva del percorso precedente e non potevo che tornare sui miei passi, certamente con occhi e spirito rinnovati».

Nella varietà dei soggetti, Vaccari registra un solo destino per un mondo senza speranza, in una coazione a ripetere: quello della Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il vecchio, che vanno dove non sanno. E questo è il mistero che accompagna l’uomo sul punto di tuffarsi nel vuoto, è lo stesso destino dei personaggi felliniani nell’ultima scena di Amarcord: vanno dove non sanno. Ritrovo quello che ho scritto, vedendo le sue serie di profughi dal mondo: «Seri e concentrati folli sono i suoi eroi, perché seria e concentrata è la follia».

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