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L’ossessione di cancellare la libertà dell’arte non è solo dei talebani

L’ossessione 
di cancellare 
la libertà dell’arte 
non è solo 
dei talebani

Vent’anni fa Vittorio Sgarbi era a Kabul e constatava come una furia iconoclasta avesse devastato il patrimonio pre-islamico afghano che, dopo faticosi restauri, oggi è di nuovo a rischio. Ma anche in Occidente l’estremismo del politicamente corretto si scaglia contro testimonianze e opere del passato.


Andai in Afganisthan nel 2001, come sottosegretario di Stato ai Beni culturali. Era con noi, con Alain Elkann, Peter Glidewell, Stefano Sabelli, Sabrina Colle, il capo della missione diplomatica, Domenico Giorgi, con il quale riaprimmo l’Ambasciata italiana.

Eravamo in condizioni a dir poco precarie. Ricordo che dormimmo per terra nei sacchi a pelo. Le cronache dei giornali di quel 31 dicembre riportano, con emozione e solennità: «Il tricolore è tornato a sventolare a Kabul, dopo dieci anni. La bandiera è stata issata sul pennone dell’ambasciata d’Italia in una cerimonia sottolineata da Fratelli d’Italia, cantato in coro e senza accompagnamento musicale, dalle autorità, dai militari e dai giornalisti italiani presenti. I carabinieri in servizio a Kabul e i componenti dell’avanguardia italiana hanno assistito all’alzabandiera insieme al capo della missione diplomatica, Domenico Giorgi, e al sottosegretario ai beni culturali Vittorio Sgarbi. L’ambasciata d’Italia era stata chiusa nell’agosto del 1992. Sgarbi ha dichiarato che l’Afghanistan, dopo 23 anni di guerra, “ha problemi strutturali, sanitari e umanitari, ma soprattutto un problema di tradizione e identità culturale”. Per ricordare le relazioni tradizionalmente buone fra Roma e Kabul, Sgarbi ha citato il fatto che l’Italia sia stata la seconda nazione, dopo la Turchia, a riconoscere l’Afghanistan dopo la sua indipendenza, nel 1921».

In quel viaggio avventuroso firmai un accordo per la difesa delle opere d’arte. E visitai il sito che denuncia davanti al mondo l’infamia dei talebani, Bamiyan, e i suoi Buddha fatti saltare con le bombe. In questi vent’anni 53 soldati italiani sono morti in Afghanistan, insieme a tre mila altri militari del contingente internazionale. Tutto questo per nulla?

Abbiamo mandato i militari a morire perché tutto fosse come prima? Aveva dunque ragione Gino Strada? Ma qualcuno dei governi che hanno fatto inutilmente morire soldati americani, australiani, francesi, americani, olandesi, canadesi, spagnoli, tedeschi, pagherà? Tremila morti inutili. Tremila famiglie devastate. E i talebani sono dove stavano vent’anni fa. Continueranno insensatamente a distruggere fragili sculture di Buddha come le 2.500 terrecotte del museo di Kabul, giudicate da menti malate «non islamiche» come se una civiltà diversa meritasse di essere letteralmente martellata, cancellata.

I talebani hanno una concezione del mondo che si ripercuote anche in Occidente, se pensiamo alla «cancelculture» che muove molti a riprodurre comportamenti analoghi, di cui un primo e abberrante esempio fu, in Italia, la rimozione del finale della Carmen di Bizet (femminicidio) con il sorriso di un musicista irriverente, il sindaco di Firenze. L’evoluzione potrebbe essere la mutazione del finale de I promessi sposi, con Renzo che si innamora di Don Rodrigo. Accade con Shakespeare: ricordate la «black face» di Carmelo Bene nell’Otello? Sarebbe inconcepibile oggi.

La polemica per la cancellazione di Omero e Nathaniel Hawthorne in alcuni piani di studio della scuola del Massachusetts è arrivata anche in Italia con un lungo elenco di attacchi alla cultura classica. La Howard University di Washigton ha chiuso il Dipartimento studi classici.

L’Università di Yale ha deciso di abolire il corso di Storia dell’arte per gli studenti della facoltà di Lettere perché l’excursus classico dal Rinascimento a oggi rappresenta una visione parziale, occidentale e maschile della cultura artistica mondiale. Arrivati a questi paradossi, dovremo sperare che i talebani tengano fede alle loro rassicurazioni dopo aver dichiarato che le donne afghane potranno accedere all’istruzione, compresa l’università, aggiungendo che dovranno indossare l’hijab ma non il burqa.

Dunque i talebani moderati; e da noi, l’avanzare di quella che Guia Soncini, con crescente stupore per il precipitare dei tempi, chiama «l’era della suscettibilità». Sono riflessioni amare per l’Oriente e per l’Occidente. Ma quello che abbiamo visto autorizza a sospettare che, più delle persone siano le opere d’arte ancora vittime dell’azione iconoclastica che ha portato i talebani a cancellare ogni memoria di una religione pacifica come il buddismo, di cui restavano i simulacri ma più nessun fedele.

Le statue votive del museo di Kabul provengono dal monastero di Hadda, un sito archeologico della provincia orientale di Nangarhar. Furono ritrovate tra gli anni Trenta e Settanta da archeologi francesi e afgani. Dopo la devastazione del 2001, restauratori e archeologi italiani stavano tentando di restituire ai frammenti una nuova vita: dita di una mano, nasi frantumati, busti spezzati, salvati da mani pietose sono stati ricomposti. In attesa di una nuova distruzione, i talebani hanno infierito su testimonianze dell’arte del Ghandara, del sincretismo greco e persiano orientale.

Fuori dal museo di Kabul hanno saccheggiato siti archeologici come quello battriano-ellenistico greco di Al Khanum, mentre il prezioso tesoro di Battriana è stato sottratto alla furia talebana dall’allora direttore del museo Massaoudi, che lo nascose in un rifugio sotterraneo. Dove sarà ora. Meglio nascosto che perduto.

Saranno pietosi i nuovi talebani? O dovremo dire addio per sempre a queste straordinarie testimonianze? E difficilmente potremmo ripetere, per i reperti del museo di Kabul, forse in parte venduti sul mercato clandestino, ciò che dissi dopo il viaggio a Bamiyan dei Buddha fatti saltare dalle bombe talebane sotto gli occhi dei capi tribù degli Hazara: sarebbe sbagliato rimetterli in piedi, in tutto o in parte. La violenza si rivolge oggi contro la loro storia: nel terzo giorno da quando sono tornati al potere in Afghanistan, i talebani hanno fatto esplodere la statua di Abdul Azi Mazari, leader storico degli hazara, minoranza sciita afghana, ucciso dagli stessi talebani nel 1995 e considerato eroe per la resistenza contro il gruppo armato.

Quanto ai Buddha, distruggendoli i talebani li hanno fatti rinascere nelle loro coscienze. Bamiyan è diventato così un luogo evocativo. Ha ritrovato una grande dimensione religiosa: la religione della bellezza perduta, il rimpianto, l’evocazione. Oggi Bamiyan è nella memoria del mondo. Inutile tentare di riprodurli. Meno li vedi e più li senti, questi due Buddha. E infatti i video deliberatamente registrati davanti agli occhi di tutti, per propaganda, hanno ottenuto l’effetto opposto a quello desiderato. Il potere manifestato sulle testimonianze antiche, inermi, è una prova di debolezza che contraddice l’esibizione di forza dei distruttori, dichiarata dalla compiaciuta voce narrante: «Queste rovine che sono dietro di me sono idoli e statue che i popoli del passato venerarono al posto di Allah. Il profeta Maometto abbatté gli idoli a mani nude quando giunse alla Mecca. Egli ci ha ordinato di abbattere e distruggere gli idoli e i suoi compagni fecero lo stesso quanto conquistarono queste regioni».

Questa violenza alle persone e alle cose è di fatto il modello della «cancel culture» che oggi dilaga in Occidente. È la nostra vera sconfitta. Vale per noi oggi quello che, fatto dai talebani, rispetto a un passato non islamico, rimproveriamo loro.

L’uccisione dell’eroico archeologo siriano Khaled al-Asaad, che aveva fatto uscire i reperti dal museo di Palmira per salvarli dalla distruzione, era stata giustificata con la risibile motivazione che costui avrebbe «promosso l’adorazione delle statue». La proibizione delle immagini e la condanna dell’idolatria sono quindi la ragione teologica che i talebani avanzano per la loro campagna iconoclastica. L’obiettivo è però più ampio e ambizioso: distruggendo gli idoli, i militanti ripeterebbero le gesta di Maometto e dei primi califfi.

Il fatto che al loro tempo i culti degli antichi dèi fossero ancora ben vivi, almeno nella penisola arabica, e oggi invece non restino che reperti e siti musealizzati, privi di fedeli da più di mille anni, non toglie evidentemente necessità e urgenza agli occhi dei destinatari dei video; le immagini delle demolizioni consentono infatti di proclamare il ritorno ai tempi dell’Egira che è fondamentale per chi pretende di aver rifondato il califfato in Afghanistan.

A queste motivazioni se ne aggiungono altre: la demolizione di vestigia e reperti assiri, romani e partici ha lo scopo di cancellare completamente il passato pre-islamico e la memoria stessa della presenza di altre fedi religiose nella regione, e procede in parallelo con le persecuzioni dei credenti in altre confessioni, come i cristiani assiri, gli sciiti o gli yazidi.

Si colpiscono inoltre i siti archeologici riscoperti negli ultimi due secoli da archeologi in maggioranza occidentali, considerati colpevoli di aver fatto riemergere gli idoli sepolti da millenni. Questi siti sono anche i più visitati dai turisti, prevalentemente occidentali, e fonte di introiti in dollari e in euro, importanti per la sopravvivenza dei regimi contro cui i talebani combattono. Insomma, la proclamata lotta all’idolatria nasconde una varietà di ragioni ideologiche e politiche contingenti.

Ma l’Occidente, e in particolare gli americani, che cancellano in nome del politicamente corretto Omero, Ovidio, Raffaello e Shakespeare, a che titolo potranno chiedere rispetto per l’archeologia classica ai talebani? Dove andrà a nascondersi l’Unesco?

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