Due pittori del Novecento in apparenza lontani e che, invece, mostrano parallele aspirazioni metafisiche. Una mostra al Mart di Rovereto li fa riscoprire: «Piero Guccione e Achille Perilli ai confini dell’astrazione».
Dopo il dialogo tra Leonardo Cremonini e Karl Plattner, volevo mettere a confronto altri due maestri del secondo Novecento, lontani e in parte dimenticati. L’incontro attraverso le opere, in cinque difficili decenni, avviene al Mart di Rovereto. Di uno dei due, Piero Guccione (nato nel 1935 e da poco scomparso), sono stato lungamente amico, ne ho curato alcune importanti esposizioni e ne ho spesso contrapposto l’esperienza e la profondità della ricerca a quella di artisti favoriti dal mercato e dalle mode.
Dell’altro, Achille Perilli (nato nel 1927 e ancora attivo), a margine di una sua esposizione a Vicenza nel 1977, scrissi il mio primo articolo su un artista contemporaneo, già affermato benché giovane (Perilli all’epoca aveva 50 anni, ed era già un maestro rigoroso e riconosciuto; io ero un ragazzo, appena nominato ispettore della Soprintendenza ai beni artistici e storici). Il primo se n’è andato lasciando molto rimpianto; il secondo, insieme a Carlo Guarienti, è oggi forse il decano tra i pittori italiani viventi. Qualcosa li unisce, oltre il mio interesse per loro? Difficile dirlo anche meditando alla lontananza delle loro ricerche, pur avendo vissuto negli stessi anni. Certamente, in diverso modo, la reazione al realismo, in particolare a quello che nel dopoguerra aveva il volto di Renato Guttuso.
Non che Perilli e Guccione non fossero pittori impegnati, e non sentissero i temi del conflitto sociale, ma per entrambi la questione centrale era quella del linguaggio. Ovvero della forma. E non potevano accettare la facile scorciatoia della illustrazione, della denuncia sociale sui temi caldi: per quello c’era la fotografia. Così, per diverse strade, si sono mossi verso l’astrazione, con esiti apparentemente opposti, tanto da figurare il primo come un campione della figurazione, il secondo dell’astrattismo.
Basta guardare la copertina del catalogo della mostra al Mart per capire quanto siano complementari, pur nella radicalità delle esperienze. Viaggiavano su binari paralleli: l’uno immerso nella luce e nel colore, l’altro imprigionato nel disegno, risalendo fino al matematico rinascimentale Luca Pacioli. Ma entrambi perseguendo una idea di infinito. L’astrattismo di Perilli è programmatico, è un modo di interpretare lo spazio, di risalire alla prospettiva quattrocentesca.
All’astrazione Guccione giunge lentamente, come in un percorso mistico, procedendo verso l’essenza. L’azzurro del cielo è un’idea, la linea sensuale dell’orizzonte, il lembo di una spiaggia sono residui di una realtà apparente. Ciò che ci dice, al di là delle scelte espressive e dell’ostinata coerenza, il rigore formale di Guccione. Si tratta di veri e propri concetti ai quali la pittura dà forma. Una volta accostai questo pittore al simbolista francese Stephane Mallarmé. In questi termini. L’azzurro. L’azzurro assoluto, l’idea dell’azzurro. Nessun artista ha così tenacemente ricercato l’essenza dell’azzurro come Piero Guccione. Se ne è lasciato permeare con voluttà.
A una così alta meta era giunto soltanto il poeta Mallarmé con la sua esaltazione de L’Azur nei celebri versi: «De l’éternel Azur la sereine ironie / Accable, belle indolemment comme les fleurs, / Le poëte impuissant qui maudit son génie / A travers un désert stérile de Douleurs… / En vain! l’Azur triomphe, et je l’entends qui chante / Dans les cloches. Mon âme, il se fait voix pour plus / Nous faire peur avec sa victoire méchante,/ Et du métal vivant sort en bleus angelus! / Il roulepar la brume, ancien et traverse / Ta native agonie ainsi qu’un glaive sûr; / Où fuir dans la révolte inutile et perverse? / Je suis hanté. L’Azur! l’Azur! l’Azur! l’Azur!».
(«Dell’eterno azzurro la serena ironia / Perseguita, indolente e bella come i fiori, / il poeta impotente che maledice il suo genio / attraverso un deserto sterile di Dolori: /… Invano! L’Azzurro trionfa, e lo sento cantare/ nelle campane. Anima mia, ecco diventa voce / per atterrirci con la sua malvagia vittoria, / e sorge come un angelo blu dal vivo metallo! / Si espande tra la nebbia, antico e traversa / la tua agonia nativa come una spada sicura; / Dove fuggire nella rivolta inutile e perversa? / Mia ossessione. Azzurro! Azzurro! Azzurro! Azzurro!»).
L’eternel azur: questa è probabilmente la strada per intendere Piero Guccione, nella sua ostinata concentrazione, in una porzione del mondo fra il cielo e il mare, tra Modica e Scicli. Un azzurro senza limiti, come non si avverte il limite fra il cielo e il mare. E, attraverso questo processo, perde senso la distinzione tra realtà e astrazione. Il cielo è pensiero del cielo. Il cielo è anche sinonimo di Paradiso nella terminologia cristiana, ma esso è, per Guccione, il tema estremo. Nella sua lunga ricerca, ogni soggetto rimanda a un altro da sé, a un sé profondo, puro: il fiore non è quel fiore da cui pure l’esperienza visiva parte, ma è l’essenza del fiore.
Così come l’interno di una stanza evoca la memoria di episodi, emozioni, situazioni, sentimenti, nelle stagioni di una vita, attraversata da pochi eventi esterni, ma da molti tumulti interiori.
Anche nella sua ininterrotta riflessione sull’arte, Guccione si confronta con i maestri del passato, da Michelangelo a Caspar David Friedrich. Cercando qualcosa che è oltre le loro forme. Cercando qualcosa di sé in loro, ed estraendolo. È questo il principio che dà senso alla nostra lettura di Michel de Montaigne, di Giacomo Leopardi, di Marcel Proust, di Mallarmé: cercare e trovare qualcosa di noi in loro. Con la pittura, con il pastello è più difficile, perché occorre stare all’immagine, non solo evocarla.
Un più antico collega di Guccione, Giuseppe Santomaso, nel pieno della maturità, dopo avere lungamente elaborato un’arte astratta, tornò a una essenziale e rarefatta figurazione nella serie delle Lettere ad Andrea Palladio, dove i motivi architettonici, le partiture lineari, e anche una geometria tremolante nell’atmosfera, si fondevano con la luce, ordine e misura della mente. A quel traguardo Guccione è arrivato naturalmente. A un certo punto ha deciso: non più la città, ma la luce del cielo, il mare. Ha realizzato con gli occhi la condizione folgorata da Giuseppe Ungaretti: «M’illumino d’immenso». Ma dipingendo questa realtà così assoluta e pura, il pittore ha descritto, con incontenibile aspirazione alla perfezione, stati d’animo.
Un processo mistico, quanto immanente. Egli porta verso l’assoluto azzurro i pensieri di Cézanne e Morandi, maestri di sensibilità affine. Guccione osa di più, cerca la coincidenza tra il fenomeno e il noumeno, l’idea. E si pone, non per caso, nel punto più estremo dell’Occidente, in una terra di confine. Scicli, Modica, la Sicilia, sono insieme origine e fine. Guccione è come il guardiano del faro che presidia la civiltà, osservando l’ultimo orizzonte, misurando il suo e il nostro destino con l’infinità del mare. Ora Piero continua a esistere in quell’azzurro, che parla di lui. Essenza della sua esistenza.
Dall’altra parte Perilli, con i suoi labirinti formali, con la sua divina proporzione, che si estende a questioni cosmologiche e matematiche connesse ai solidi platonici e ad altre tipologie di poliedri. In una progressiva rarefazione, dai segni graffiati sulla superficie in un tentativo di sublimare la densa materia, a un percorso di geometrie platoniche attraverso teoremi prospettici, con una stesura piatta e uniforme. Il mondo per Perilli ha un ordine arcano, come d’altra parte Pacioli aveva dimostrato, stabilendo che per scienza matematica si deve intendere la somma di aritmetica, geometria, astrologia, musica, prospettiva, architettura e cosmografia.
Così, sia per Guccione sia per Perilli, la pittura è uno strumento per illustrare l’infinito come attributo immanente della ragione, come possibilità indeterminata della mente di autogenerarsi autonomamente, a partire da leggi eterne sue proprie. C’è un infinito sensoriale cui dà forma, e c’è un infinito della mente, concettuale, cui si applica Perilli. Averli fatti incontrare, e misurare negli spazi di Mario Botta al Mart, è un tributo alla loro vocazione assoluta, verso la fine del tempo.
