Con la scomparsa dell’«anima» di Adelphi si perde una capacità unica in Italia: quella di «essere esecutore dei testi altrui» e rendere partecipe la comunità dei propri lettori. I libri che ha pubblicato, sono straordinari, felicemente «inattuali». A partire dalle copertine.
Mia sorella fu aggredita per aver mostrato il libro di Umberto Eco, Pape Satàn Aleppe. Cronache di una società liquida, uscito per le edizioni de la Nave di Teseo, il giorno del suo funerale, il 23 febbraio 2016.
A quello di Roberto Calasso il prete celebrante, l’argentino padre Daniel Balditarra, ha elogiato l’editore e lo scrittore, mostrando in chiesa il suo ultimo libro, Memè Scianca. Giusto e bello, nel riconoscimento del valore di Calasso: al posto della predica di rito, una nobile commemorazione; ma gli sciacalli riserveranno a lui le stesse insensate contumelie? O lo considereranno sopra le parti, nel ruolo supremo di officiante? Lettore in nome di Dio.
A Umberto Eco non erano toccate attenzioni divine, ma solo umane per tramandarne, attraverso i suoi stessi pensieri, la memoria. L’aldilà per gli scrittori sono le parole che lasciano, grazie alle quali continuano a vivere. Calasso ha trovato nel prete il suo testimone celeste; Eco nell’editore in cui si era costituito prima di morire, affidando con lungimiranza la sua «Nave» a un fedele nocchiero, Elisabetta Sgarbi, proprio lei, severa e giusta. Sono due modi per attraversare la morte. Ma per Eco l’aldilà era qua, nella trasmissione del suo pensiero a lettori nei quali continuava a vivere. Per Calasso l’aldilà è lo spazio dove la sua anima trova nuova dimora.
Non credeva in Dio, ma certamente credeva nel Dio che è dentro di noi, e che ci rende infinitamente diversi, e diversamente pieni di lui: nel caso di Calasso il poeta Iosif Brodskij, suo vicino di aldilà, nella serenissima Venezia, ipotizzava che un dio, forse Apollo, fosse entrato nel suo corpo per raccontare al mondo la storia segreta degli dei, «giacché, più di una volta, si ode nelle sue pagine un timbro estremamente intimo, eppure, nello stesso tempo, altamente impersonale, che non può appartenere a uno di noi».
Non mi ha stupito, quindi, che Fleur Jaeggy, sua moglie, abbia scelto, per la cerimonia funebre, a Milano, la chiesa di Santa Maria presso San Satiro, la più vertiginosa architettura di Bramante, dove convenientemente poteva trovare asilo lo spirito del suo amato. C’era, in realtà, nell’aspetto di Calasso qualcosa di curiale, di cardinalizio, in contrasto con il suo pensiero che era in noi come le anime in Paradiso.
Diversamente da ogni altro editore, Calasso non andava in cerca di nuovi talenti, non pubblicava scoperte e neppure i classici universali (per quelli c’era stata la «Bur» negli anni della sua formazione). Seguiva sentieri interrotti, talvolta abbandonati, scopritore insoddisfatto di scoperte, definendo il perimetro della conoscenza per continue illuminazioni, per avvicinamenti, che corrispondevano alle sue letture. Il libro esisteva perché lui lo aveva scelto e letto per noi. «Adelphi» erano i suoi fratelli lettori, chiamati da lui a un culto della letteratura, una vera e propria ecclesia dei «leggenti», una comunità non diversa da quella dei fedeli di una religione. La Chiesa di Calasso. Ciò che toccava si rianimava, e si riparava, pur avendo già avuto una casa. Così si fecero fratelli Joseph Roth e Hugo von Hofmannsthal, Elias Canetti e Georges Simenon, Bruce Chatwin e Marcel Schwob, Sándor Márai e Cristina Campo, Guido Ceronetti e Leonardo Sciascia, e perfino Curzio Malaparte e Alberto Savinio. E da ultimo anche Benedetto Croce.
Non importava che fossero usciti da Rizzoli, Garzanti, Bompiani, da Longanesi o Laterza. E magari a tempo debito. Erano diventati suoi, erano entrati nel sacro recinto, erano venuti ad abitare nella sua casa. Non si chiama «casa editrice»? Per questa rigenerazione autori dimenticati diventavano attuali. I suoi occhi ne rivelavano la natura nascosta, dando loro una cadenza intimamente musicale, inconfondibile e riconoscibile. La grandezza di Calasso, come interprete ed esecutore di testi d’altri, non aveva bisogno di noi, né di un funerale solenne. Editore di una temerarietà inaudita, in tempi di dogmatico pensiero unico, pubblicava libri già conosciuti, con grande leggerezza, come se ci dicesse: questi sono i libri di Calasso, io sono il lettore, e vi dico di leggerli. E così si creava una comunità di affiliati, i lettori dei libri Adelphi.
A ispirarlo era stato il maestro (senza cattedra) «Bobi» (Bazlen), che è anche il titolo del suo altro libro, uscito, in concorrenza con se stesso, alle soglie della morte. Il suo più grande saggio, il suo opus magnum, non sono solo i libri che ha scritto ma i libri che ha pubblicato, strumenti per la conoscenza del mondo attraverso la letteratura, un procedimento mutuato da Borges. Inutile scrivere. Ci sono tutti i libri. Bobi glielo aveva spiegato negli appunti del quaderno Note senza testo: «Io non credo che si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi (“volumina”). Io scrivo solo note a piè di pagina».
Le note di Calasso a questa «Enciclopedia del mondo attraverso i libri altrui» sono non saggi, ma copertine, in una gabbia inconfondibile, che solo Einaudi e Franco Maria Ricci, in verità più umilmente, hanno concepito, come un abito di sartoria, classico-moderno o black tie, una serie di formidabili e imprevedibili proposte di artisti sommersi, in una linea elegantissima e sobria. Ecco dunque rivestiti, per portarli in società, gli autori confinati, con abiti pittoreschi e fuori moda, da Rusconi: J.R.R. Tolkien, Guido Ceronetti, Cristina Campo, Elémire Zolla, scrittori ensortables, restituiti al mondo dei vivi, dopo essere usciti, grazie a Calasso, da un campo di concentramento.
La casa editrice Adelphi nacque nel 1962 per decisione di Luciano Foà (che abbandonò Einaudi dopo la polemica sulla pubblicazione delle opere integrali di Nietzsche a cura di Giorgio Colli) e Bobi Bazlen, ma i primi quattro libri uscirono l’anno dopo, e non erano, fin da subito, testi nuovi: il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, le opere teatrali di Georg Büchner, le Novelle di Gottfried Keller, Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo. Ritrovamenti. A dimostrazione plateale della libertà, della imprevedibilità e della inattualità delle scelte di Adelphi. Roberto Calasso vi collaborò dal 1967, per divenirne poi direttore editoriale e autore della casa, e infine proprietario, resistendo alla fusione dei blocchi Mondadori e Rizzoli.
Bazlen, conosciuto a Roma nel 1962, gli dice la frase fatale. «Faremo solo i libri che ci piacciono molto»; e gli parla di René Daumal e Roger Gilbert-Lecomte che indagavano «il Vedanta accostato a Spinoza, Guenón, lo stato di veglia». Bazlen, sulla scia di Giuseppe Tucci, si era interessato di cultura dell’Est, del Tibet, dell’India, della Cina, e aveva proposto a Einaudi, oltre a Freud e Jung, testi di antropologia, di etnologia, di storia delle religioni, da James George Frazer a Johann Jakob Bachofen. Il pensiero orientale in parallelo alla letteratura mitteleuropea (Musil, Svevo). Nella biblioteca Adelphi apparve emblematicamente prima Il monte analogo di Daumal che Andrea o i ricongiunti di Von Hofmannsthal, autore che pur fu scelto per il centesimo numero della Biblioteca Adelphi, con il Libro degli amici, peraltro – comme d’habitude – già edito nella collana Cederna di Vallecchi con quel rivestimento protettivo di carta riso, con cui una mano paziente difese tutti i libri della biblioteca personale di Calasso, come un preservativo dai contagi di mani inesperte. Bazlen morì nel 1965, in un albergo di Milano. In un taccuino aveva lasciato scritto: «Un tempo si nasceva vivi e a poco a poco si moriva. Ora si nasce morti – alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi». Com’è toccato, in un lungo processo di palingenesi, a Calasso.
A partire dagli anni Settanta il marchio Adelphi si era affermato, in concorrenza con il dominante Einaudi degli Struzzi, dei Coralli e dei Millenni. Hermann Hesse e Joseph Roth (in nessuna stanza di studente mancavano Siddharta e La leggenda del santo bevitore), letteratura mitteleuropea (Il manoscritto trovato a Saragozza di Jan Potocki uscito nel 1965) e Indiani d’America (Alce Nero parla di John G. Neihardt, 1968), Robert Walser e Antonin Artaud, Il libro dell’Es di Georg Groddeck (1966) e Lezioni e conversazioni di Ludwig Wittgenstein (1967), e così via, fino alle opere di Vladimir Nabokov e a quelle di Milan Kundera, i romanzi (postumi) di Guido Morselli e i saggi e viaggi di Giorgio Manganelli; e, dal 1981, con Perturbamento, le opere di Thomas Bernhard.
Osserva Beppe Sebaste: «Se i libri Einaudi li riconoscevi dall’odore, ed era un aroma eccitante di impegno e di costruzione di sé, attualizzata dalla politica, tutt’uno col sentimento di appartenenza al fronte frastagliato dei ribelli, i libri Adelphi erano un’esperienza diversa e complementare, innanzitutto tattile e visiva (la pelle delle copertine, ancora una volta)».
Le copertine, dunque. Quali? Naturalmente inattuali. Mai un Pistoletto, un Paladino, un Picasso, e neppure i troppo facili Miró, Klee o Modigliani; ma: Fabrizio Clerici, Enrico d’Assia, Alex Colville, Andrew Wyeth, Félix Vallotton, Léon Spilliaert, Stanley Spencer, Kostantin Somov, R.B.Kitaj, Dick Bengtsson, Forrest Bess. Ogni volta una sfida, e ogni volta una sorpresa, che ci obbligava a girare la copertina per cercare, con ansia e curiosità, il nome del pittore. Lo chiosa perfettamente, con gratitudine, Sofia Silva: «In questi quarant’anni in cui l’arte italiana si è divisa tra sculture dalle tonalità burriane piazzate in mezzo alle circonvallazioni e la dittatura dell’arte povera, in questi lunghi anni insomma dove l’Italia si è beata di quello pseudo-cosmopolitismo che è l’effige stessa del provincialismo, Adelphi è rimasta fedele alla grande pittura, aspettando “l’altra storia dell’arte”, come la chiama Roberto Calasso».
Un processo interpretativo di cui Calasso era perfettamente consapevole, e nel quale fu maestro, rovesciando il procedimento, di lettore delle opere d’arte trasferite in letteratura, di Roberto Longhi: «”Ecfrasi” era il termine che si usava, nella Grecia antica, per indicare quel procedimento retorico che consiste nel tradurre in parole le opere d’arte. Tutti gli editori che usano immagini praticano l’arte dell’ecfrasi al rovescio».
In fondo Canetti, ne La rapidità dello spirito, edito da Adelphi, con copertina di Magritte, aveva scritto: «Dedurre i poeti dai loro pittori: un nuovo ramo della ricerca letteraria». E così Calasso ha portato l’arte alla letteratura, scrivendo, in campo avverso, Il rosa Tiepolo. Oggi in quei cieli vive.
