Interessante la tesi del professor Giovanni Orsina secondo cui «Il populismo non è generato dalla sfiducia nelle istituzioni, ma è la conseguenza di un sistema dal quale gli elettori non si sentono pienamente valorizzati».
Lo so, la mia domanda sembra una provocazione, che rischia di confondere il lettore e di non fargli capire più niente. Eppure, è tutt’altro che un interrogativo polemico. La riflessione me l’ha suscitata un articolo di Giovanni Orsina sulla Stampa. Docente di storia contemporanea della Luiss e autore di alcuni libri sull’antipolitica, Orsina ha scritto un commento sul premierato proposto da Giorgia Meloni sostenendo che potrebbe essere un antidoto al populismo. La parte dell’editoriale che più ha suscitato il mio interesse, però, non è quella incentrata sulla riforma presentata dal centrodestra, bensì il ragionamento sulle aspettative degli elettori, i quali sono – cito testualmente – «mal disposti ad accettare che la scelta del vertice dell’esecutivo non tocchi a loro».
Secondo Orsina, le costituzioni europee del Dopoguerra, per paura dell’uomo solo al comando, hanno sempre cercato di evitare il rapporto troppo diretto tra elettorato e governo, frapponendo tramite il Parlamento la mediazione dei partiti. A scoraggiare l’idea di un’elezione diretta del premier sono state le esperienze autoritarie degli anni Venti e Trenta del secolo scorso e anche le dittature comuniste. Ma con il tempo e la caduta delle ideologie e di un mondo diviso in blocchi, il ruolo delle formazioni politiche è venuto meno in tutta Europa ed è aumentata una richiesta di maggior voce in capitolo da parte degli elettori. Ma in Italia «il Sistema», con le sue alchimie e i suoi delicati equilibri, non ha saputo dare una risposta. Anzi, a fronte di una crisi evidente della cosiddetta Prima Repubblica, con Tangentopoli e il crollo dei partiti di governo, si è ampliata la distanza tra esecutivo ed elettorato. Basti pensare quanti sono stati gli esecutivi tecnici, cioè non votati dagli italiani, dal 1993 a oggi. Si comincia con Ciampi, per passare a Dini, a Monti e Draghi. Se poi prendiamo il numero dei governi che si sono succeduti con varie formule arriviamo a quota 20, includendo anche quello in carica. E molti dei presidenti del Consiglio, pur essendo politici, non si può dire che siano stati eletti. Quando Giuliano Amato venne scelto per sostituire il secondo governo D’Alema, nell’aprile di 23 anni fa, non era neppure parlamentare. Stessa cosa capitò nel 2014, con Matteo Renzi, e nel 2018 con Giuseppe Conte. Cioè, a guidare un esecutivo «politico» furono incaricati tre signori che non erano stati sottoposti al giudizio degli elettori.
Dal 1994 a oggi, grazie a Silvio Berlusconi, il maggioritario ha adottato il nome del candidato premier nella scheda. Tuttavia, la promessa di lasciar scegliere agli italiani da chi farsi governare è spesso stata tradita, prova ne sia che nel 1998, pur avendo scelto Romano Prodi, a un certo punto si ritrovarono prima D’Alema e poi Amato. E nel 2013 gli elettori di sinistra, pur avendo indicato Pier Luigi Bersani a Palazzo Chigi, videro spuntare nell’ordine Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Tralascio il caso di Giuseppe Conte, un perfetto sconosciuto, che Luigi Di Maio e Matteo Salvini scelsero in una stanza d’albergo a metà maggio 2018, dopo aver scartato il nome di Giulio Sapelli, più noto dell’avvocato di Volturara Appula, ma anch’esso sconosciuto o quasi agli elettori.
Insomma, la storia della Repubblica, in particolare quella degli ultimi trent’anni, è costellata di decisioni che sono passate sopra la testa degli italiani. Con la scusa dell’interesse nazionale, della stabilità e delle emergenze (una volta quella dei conti pubblici, un’altra quella sanitaria), qualcuno ha deciso in nome loro. E qui torno a Orsina e al suo articolo. Il professore nel suo intervento spiega che il populismo non è generato dalla sfiducia nelle istituzioni, ma «è la conseguenza di un sistema dal quale gli elettori non si sentono pienamente valorizzati». Cioè, mentre si accusano i Cinque stelle, la Lega e anche Fratelli d’Italia di aver portato un vento populista, non ci si rende conto che il fenomeno è il risultato del fallimento di chi non ha rispettato l’articolo uno della Costituzione, in cui sta scritto che «la sovranità appartiene al popolo». Scrive Orsina: «Nell’ultimo decennio abbiamo avuto due governi tecnici, privi per definizione di un rapporto politico forte con l’elettore. Bene: dopo il primo, l’astensionismo è cresciuto del 5 per cento – l’aumento maggiore fino ad allora – e si è affermato il Movimento 5 stelle; dopo il secondo, l’astensionismo è montato del 9 per cento e ha vinto Giorgia Meloni».
Orsina ovviamente non lo dice, ma sia Monti sia Draghi (come pure Ciampi e Dini) sono il frutto dell’ostinazione con cui i presidenti della Repubblica (Scalfaro nel periodo 1994-1995, Napolitano nel 2011 e Mattarella nel 2021) hanno rifiutato di sciogliere il Parlamento e di restituire la parola agli elettori dopo le dimissioni degli esecutivi votati dagli italiani. Così, rinviando le elezioni per imporre dei governi tecnici, coloro che si dicono contrari al populismo hanno di fatto agevolato il populismo. Ultima annotazione: che cosa sarebbe accaduto nel 2011 e nel 2021 se Napolitano e Mattarella avessero sciolto le Camere e indetto nuove elezioni? Probabilmente, nel 2011 avrebbe rivinto il centrodestra e nel 2021 anche. La storia sarebbe cambiata di molto? Probabilmente sì. Tanto per dire, difficilmente nel 2013 il Parlamento avrebbe rieletto Napolitano e di certo nel 2022 la scelta della maggioranza non sarebbe caduta su Mattarella. Ecco perché una riforma del potere di sciogliere le Camere ed evitare ribaltoni è urgente.
