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Il Seicento, nel segno della luce e nel mistero dell’ombra

Il Seicento, nel segno della luce e nel mistero dell’ombra

A Lucca, una «galleria» di artisti del Seicento che hanno interpretato e declinato la straordinaria lezione espressiva di Caravaggio. A cominciare dal «teatrale» Pietro Paolini.


L’intenzione è quella di restituire a Pietro Paolini, lucchese, la reputazione e l’estrema centralità nel novero dei caravaggisti che gli era stata riconosciuta dalle fonti storiche, dai collezionisti e dagli antiquari, con una debole reazione degli storici e degli studiosi, fino alla prima, sonora, avvisaglia della monografia di Patrizia Giusti Maccari (1987), per molti versi meritoria. Ma a questa non è seguita una rinnovata prospettiva storica, come è toccata, nella stessa stagione degli studi, a personalità come Giovanni Serodine, Tanzio da Varallo, Guercino, Guido Cagnacci, Mattia Preti, Battistello Caracciolo. Forse anche per ragioni geografiche.

L’intensità di attenzioni per la pittura lombarda, dopo l’ouverture caravaggesca di Roberto Longhi, con l’assidua presenza di Giovanni Testori sui maestri dei Sacri Monti; per la pittura emiliana, con le grandi mostre di arte antica, e il rilancio di Guercino e Cagnacci (attraverso la morbosa passione monogamica di sir Denis Mahon per Guercino, e il coinvolgimento erotico di Francesco Arcangeli e Pier Giorgio Pasini per Cagnacci); e per la pittura napoletana con l’impegno «mostruoso» di Raffaello Causa e di Nicola Spinosa, ha lasciato ai margini la toscana, annuvolata nell’immaginazione visionaria di Francesco Furini, Cecco Bravo e Simone Pignoni.

E toscana, con la variante senese, innescata dalle fruttuose ricerche di Giovanni Pratesi, vuol dire Firenze, con le imprese critiche di Piero Bigongiari, Mina Gregori, Luigi Baldacci, Carlo Del Bravo e il valoroso seguito di Giuseppe Cantelli, Francesca Baldassari, Sandro Bellesi. Così, fra gli altri, è toccata gloria (da Brandi a Bagnoli) a Rutilio Manetti e a Bernardino Mei. Mentre defilata è sempre rimasta, con i suoi artisti, Lucca. Nella risonanza verso i profeti, i primi maestri delle ricerche di così attrezzate e agguerrite schiere di critici, il nome di Pietro Paolini non è mai evocato, per esempio, dal Berenson, dal Longhi e dal Voss, che non gli riconobbero la statura dovuta, dedicandogli attenzione. E questo nonostante che alla mostra 1922 sulla Pittura italiana del Sei e Settecento, a Palazzo Pitti, proprio Longhi avesse giustamente attribuito a Paolini il Ritratto virile già in collezione Marchesi, ritenuto del Caravaggio.

Dopo la monografia della Maccari, principia un intermittente ma non decisivo interesse critico sul maestro, che aveva episodicamente attratto l’attenzione di studiosi come Alessandro Marabotti Marabottini, Anna Ottani, Roberto Contini, e, in tempi più recenti, Gianni Papi e Nikita de Vernejoul. Che d’altra parte, Paolini, nel variegato arcipelago caravaggesco, fosse destinato alla marginalità è dimostrato da una circostanza paradossale: negli anni delle cacce di mercanti e conoscitori come Maurizio Marini, Mario Bigetti, Luciano Maranzi e Federico Zeri, uno dei suoi più bei dipinti, il Concerto con cinque figure, ora in collezione Micheli, sostò a lungo negli ambienti di un locale notturno romano molto frequentato negli anni Ottanta, l’Open gate. La sacralità del capolavoro non aveva avuto lusinghieri riconoscimenti.

Non meno singolare è che a me sia toccato intercettare la pala d’altare per la cappella di una delle famiglie più importanti di Lucca, i Mazzarosa, sostituita da una copia invece di essere immobile per destinazione. Possiamo dunque dire che, in tempi moderni, la sua fortuna sia stata carsica, benché stabile, e sostenuta più dal collezionismo che dagli studi e da occasioni pubbliche. Questa è la prima volta che ne sono chiamati a raccolta tanti.

Ho voluto preparare l’esposizione partendo dalla rivoluzione di Caravaggio, indiziaria, con la presenza di un’opera assai notevole come il Cavadenti, sulla quale, per taglio e genere, sicuramente Paolini dovette riflettere. Secondo Filippo Baldinucci, Paolini fu a Roma, nel fervore caravaggesco, per sette anni. Tornò a Lucca dopo la morte del padre. Cos’era avvenuto in quei 30 anni, a partire dall’arrivo di Caravaggio a Roma nel 1596, e poi per due, anche tre decenni dopo la sua morte? La mostra tenta di spiegarlo non come rappresentazione dei tanti e variegati volti del caravaggismo a Roma, ma attraverso l’elemento più innovativo e discontinuo, rispetto all’età del manierismo, che è il tema della luce.

Dal Cavalier d’Arpino al Caravaggio, soprattutto quello drammatico degli ultimi quattro anni, la sostanziale discontinuità è rappresentata dall’ambientazione e dagli interni illuminati artificialmente. Si passa dal giorno alla notte; è come se la situazione notturna presupponesse una sfida con l’introduzione di nuove fonti luminose, attraverso la luce artificiale. Una parte cospicua della produzione caravaggesca sembra annunciare, con modi intuitivi e allusivi, l’era della elettricità.

L’ambientazione notturna si era manifestata in alcuni tentativi suggestivi e sperimentali nel Nord Italia negli anni della formazione di Caravaggio, in Savoldo, Bassano, Antonio e Vincenzo Campi, Cambiaso. Tutti fenomeni guardati con sicuro interesse da Caravaggio giovane. Nella produzione matura di Caravaggio queste ambientazioni annunciate, primamente nella Vocazione di San Matteo, sono lo scenario obbligato, a partire dalla Morte della Vergine, e soprattutto dalla Cena in Emmaus del 1606, alla quale si lega una recente acquisizione come l’Ecce Homo di Madrid e, di conseguenza, i capolavori napoletani, in particolare le Sette opere di misericordia con la luce di una sola fiaccola, nel buio di una convulsa strada di Napoli. E sarà così in tutte le opere successive, dalla Decollazione del Battista di La Valletta al Davide e Golia della Galleria Borghese.

L’ultimo Caravaggio è tutto a luce artificiale. La prima risposta a queste ambientazioni notturne viene da Rubens a Roma, quando, nel 1609, dipinge la sua Notte per la Chiesa dei Filippini di Fermo. Una prova virtuosistica di effetti speciali, dove il bambino è come un bozzolo di luce al neon che irradia sui personaggi circostanti. Dopo la morte di Caravaggio, nel 1610, lo spagnolo Jusepe de Ribera e il francese Valentin de Boulogne sono i due più importanti protagonisti della pittura naturalista a Roma. A differenza di Ribera, che nel 1616 si stabilisce a Napoli – all’epoca sotto la dominazione spagnola – l’intera carriera di Valentin si svolge a Roma. A lui tocca un posto da grande protagonista, muovendosi con agilità in tutti i soggetti affrontati dal maestro, con risultati sorprendenti e innovativi, soprattutto per l’invenzione di una luce strisciante e uniforme, dai riflessi perlacei.

Il pittore italiano che mostrerà più vivo interesse in questa direzione è proprio Pietro Paolini ma, prima di arrivare a lui, nel tempo del suo soggiorno a Roma nel terzo decennio del Seicento, la sperimentazione «elettrica» passa per numerosi maestri: a partire da quelli che avevano vissuto l’esperienza napoletana, in primis Battistello Caracciolo così come lo vediamo nella Liberazione di Pietro al Pio Monte di misericordia in dialogo con il maestro, nella Immacolata concezione per la chiesa di Santa Maria della Stella, nella Salomè degli Uffizi e infine nella declinazione tragica della Santa Caterina da Siena della Fondazione Cavallini-Sgarbi.

Tutta la produzione di Battistello è tentazione di effetti luminosi in termini radicali, che raggiungono l’apice nella ricerca della personalità denominata pertinentemente «Maestro del lume di candela», più o meno coincidente con la figura storica di Trophime Bigot, spericolato sperimentatore di mirabili effetti di controluce, stupefacenti. Ed è sulla sua scia che va registrata l’esperienza di Gherardo delle Notti. La così intensiva concentrazione su questa pittura di luce è attestata, in diverso modo, da artisti come Bartolomeo Manfredi, Giovanni Francesco Guerrieri, Mattia Preti, Rutilio Manetti, in una lunga escursione che include anche, con radicale convincimento, Paolini.

Una notevole prova di Rutilio Manetti, un inconsueto Giudizio di Pietro, attestato ab antiquo nella villa Maidalchina di Olivia Pamphilij presso Viterbo, mostra un’emergente fiaccola sul fondo che irradia luce sull’episodio di teatrale complessità. Ma non sarà difficile riscontrare analoghi effetti in Ercole e Onfale di Giovanni Francesco Guerrieri, nelle Tentazioni di San Francesco di Simon Vouet in San Lorenzo in Lucina o nel seducente Amore Vincitore di Orazio Riminaldi.

La complessa esperienza di Paolini, che presuppone una fuga dalla realtà in favore di una rappresentazione di carattere teatrale, è condivisa con effetti più scenografici da Mattia Preti. Giustamente per Paolini Nikita di Vernejuol parla di «commedia dell’arte».
Il pittore non dipinge la realtà, ma mette in scena episodi di interpretazione dei Bari e della Buona Fortuna. Puro teatro è anche il Ritratto di famiglia inscenato nella bottega dell’artista, con l’autoritratto del pittore che esibisce un suo dipinto indicato dalla madre perché l’artista che lo fronteggia (il fratello?) ne derivi un’incisione.

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