Nella città abruzzese apre un Museo-Fondazione che celebra un secolo ricco, ma oggi trascurato, grazie al suo patrimonio di centinaia di dipinti. (Prima puntata)
C’è, nel collezionista, una doppia ansia, schiava d’amore: avere per sé l’amato bene, e, contemporaneamente, volere che sia di tutti, per quel solo possesso che le opere d’arte consentono, che è quello dello sguardo. Queste due opposte spinte, e una terza, subordinata, ma non meno importante, hanno guidato l’impresa di Venceslao Di Persio e di Rossana Pallotta. Hanno cercato, hanno visto, hanno amato. Sono stato, in numerose occasioni, e in anni relativamente recenti, sollecitato da un uomo di mondo e di musei, Stefano Papetti, a vedere la collezione di Venceslao e Rossana, sempre sorpreso e sempre travolto dall’empito e dalla amorosa folla di maestri dell’Ottocento, stretti nelle stanze di un moderno appartamento di Pescara, come profughi accolti da una generosa istituzione non governativa.
Una Ong. Come riporta la Treccani: «Organismo (o ente) non nato per volontà dello Stato, in cui la ragione dell’azione è di tipo ideale, quale una missione o una vocazione». Esattamente questo, e con una conoscenza e un amore che intendono come nelle opere d’arte vi sia l’uomo, nella sua essenza più pura e più alta. Almeno come in un afghano profugo. E qui si rivela la terza opzione, combattuta e ottenuta, anche contro uno Stato distratto: dare una casa degna a questi profughi, davanti al mare Adriatico nella città del poeta che di molti di loro è stato amico e garante: Gabriele D’Annunzio, che ha offerto anche il nome alla strada. Occorreva un palazzo, naturalmente della stessa epoca: quella che fu la sede, per beni molto meno preziosi, cartacee valute e titoli di credito, della Banca d’Italia, in viale Gabriele d’Annunzio a Pescara.
L’edificio del primo Novecento, restaurato e dotato di ogni garanzia secondo i parametri museali internazionali, ospiterà la collezione di capolavori dell’Ottocento italiano e francese, ovunque ricercati da Venceslao e Rosanna. Con passione, costanza e numerosi viaggi intercontinentali, i Di Persio hanno raccolto in più di trent’anni centinaia di dipinti animati di vita silente, per raccontare il secolo – l’Ottocento – vibrante di ideali e innovazioni, documentando natura e tradizioni, per conservarne memoria, e partecipando alla nascita della modernità.
L’Ottocento è il secolo chiave, il più importante, e la sintesi di una storia, già detta moderna con Giotto, e che attendeva di inverarsi nel secolo più difficile, e più minaccioso per la sopravvivenza dell’arte, quello della fotografia. L’Ottocento è il tempo di quello che, tra pittura e fotografia, Luigi Carluccio chiamò: «combattimento per un’immagine». Tra passato e futuro. L’Ottocento conferma e cambia, al limitare delle opere di Pelizza da Volpedo, Angelo Morbelli e Giacomo Balla, tra 1898 e 1904. Alla fine della guerra, astrattismo, cubismo e futurismo lasceranno a terra i corpi dei morti, rianimati da Antonio Mancini e Giovanni Boldini, con la bombola a ossigeno della pittura. Con il 1930 sarà finito tutto.
Non è insolito che, per alcune istanze, un secolo si prolunghi per trent’anni nel successivo. L’Ottocento non vuole morire e, tra corsi e ricorsi, minaccia di sopravvivere anche nel nostro tempo, fino a riprodursi nel dickensiano Banksy. Venceslao e Rosanna stanno, guardinghi, in attesa che Andrew Weyth, Norman Rockwell, Luciano Ventrone, Roberto Ferri vengano iscritti d’ufficio all’Ottocento che non muore. Loro intanto predispongono cornici, per un vizio d’autore, perché i dipinti siano vestiti per presentarsi in società. Si tratta, a Pescara, per esclusiva tenacia e volontà dei collezionisti della «invenzione di un museo», che nessun altro, dopo Giuseppe Ricci Oddi a Piacenza e Peggy Guggenheim a Venezia, avrebbe saputo prima costituire (più facile), poi istituire (più difficile).
Per la prima funzione occorrono conoscenza, passione, amore per la caccia e, da ultimo, denaro; per la seconda ci vogliono doti di pazienza sovrumana, di gentilezza e di determinazione «per» la comunità e, in fin dei conti, per lo Stato che non sa e non vuole. La raccolta Di Persio-Pallotta è un grande museo pubblico, sotto specie di Fondazione, e, nella latitanza della Galleria nazionale d’Arte moderna di Roma, il più importante museo dell’Ottocento della Italia centrale, l’unico che corrisponde alla compiuta Unità, ovunque tradita.
In questo spirito inizia appunto, nel 1987, la collezione Di Persio-Pallotta, con l’acquisto di un dipinto del pittore romano (ma napoletano d’adozione) Antonio Mancini, risalente al suo secondo periodo inglese: il Ritratto di Mrs. Fry (1907). Gli studi storico-artistici erano in quel momento ancora lontani dalla riscoperta di Mancini, oggi celebrato con importanti retrospettive da alcuni dei più importanti musei tra Europa e Stati Uniti. Un percorso a ritroso porterà poi i Di Persio ad acquisire capolavori del sontuoso periodo giovanile del pittore, tra cui il celebre Prevetariello in preghiera (1873) e Verità (1873), definito da Dario Cecchi una delle più belle opere dell’Ottocento italiano.
La raccolta si è ampliata negli anni con dipinti di altri maestri napoletani e di alcuni dei maggiori pittori francesi del XIX secolo. Il percorso si snoda su tre piani e 15 sale, ordinate per temi, scuole e tendenze. La storia della pittura napoletana del XIX secolo, raccontata dalle opere del museo, non può che iniziare con il vedutismo. Quando, a partire dalla metà del XVIII, secolo gli scavi archeologici portano alla luce le vive città di Pompei ed Ercolano e gli intendenti di tutta Europa intraprendono sempre più numerosi il «Grand Tour», il paesaggio di Napoli, dei suoi dintorni e della Costiera amalfitana è uno dei più illustrati nella pittura internazionale.
È decisivo in tal senso il dipinto più antico presente nel museo: Il monastero dei cappuccini sulla costa amalfitana dell’austriaco Joseph Rebell. La pittura napoletana del XIX secolo ha il suo cuore, tra idillio e paesaggio, nei pittori della Scuola di Posillipo, a cui è dedicata la seconda sala. L’espressione nasce polemicamente negli ambienti dell’Accademia per indicare quegli artisti che, tra il terzo e il quarto decennio dell’Ottocento, si ispiravano al pittore olandese Anton Sminck van Pitloo e al napoletano Giacinto Gigante.
Da sempre mete dei paesaggisti di tutto il mondo, da William Turner a Jean-Baptiste Camille Corot, la città di Napoli e i suoi dintorni furono ripresi dai pittori della Scuola di Posillipo in visioni romantiche, ispirate al vero secondo i principi antiaccademici della pittura en plein air, dalla luce tersa delle vedute di Gigante, alla nostalgia dell’antico de I templi di Paestum di Pitloo, la più grande tela del pittore olandese, passando per il Vedutismo, quasi scenografico, di Salvatore Fergola. Mi fermo qui. Lo so, volevate saperne di più. È un museo. Il seguito alla prossima puntata.
(Fine prima puntata)
