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Paganini ritrova Genova

Paganini ritrova Genova

La sua città d’origine celebra il leggendario violinista del XIX secolo con una statua in bronzo. Un’opera figurativa controcorrente rispetto a questo tempo, capace di rendere con immediatezza la forza e la drammaticità della musica.


I monumenti sono finiti perché sono finiti gli uomini. Cosi come non nascono più, in arte, Giacomo Leopardi, Wolfgang Amadeus Mozart, Caravaggio, William Shakespeare, non ci sono monumenti relativi alla loro perduta grandezza. Quello più importante del secolo scorso è l’orinatoio di Marcel Duchamp che celebra il nulla in cui siamo precipitati. È persino ridicolo pensare al monumento di un uomo politico del nostro tempo, anche considerato.

Immaginate come sarebbe, per mancanza di gravità, una statua ad Angela Merkel, o a Emmanuel Macron. Dall’orinatoio in avanti sono tutti cessi. In Italia si chiude con i personaggi del Risorgimento: Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II. Non è così solo per i personaggi della storia civile ma anche per i santi. Dopo il già triste don Bosco, l’unico santo di cui si conoscono – e purtroppo si vedono monumenti – è padre Pio, «inquinatore» di piazze, chiese, altari, con le sue forme come un sacco.

Ma il numero di sculture dedicate a padre Pio, pari forse a quelle del patrono d’Italia San Francesco, dà la misura della sua potenza spirituale, della sua grandezza, sia pure controversa, nelle forme infelici che impone la sua rappresentazione naturalistica. I politici del suo tempo, anche conosciuti, non reggono il confronto: Amintore Fanfani, Aldo Moro, Giulio Andreotti, Bettino Craxi, al quale è toccato il destino di essere caricaturato come un nuovo Benito Mussolini, di cui non resta traccia dei pur numerosi monumenti.
In fondo il Duce è stato l’unico, dopo l’orinatoio, che ha creduto di potere sostenere la parte.

Dunque, per immaginare una statua occorre pensare a un personaggio della storia che sopporti la dimensione statuaria. Ma nessuno oggi ci pensa, ciò che è stato è stato. I contemporanei sono incompatibili, i grandi del passato sono inattuali e consegnati alla memoria attraverso l’avanzamento della tecnologia. Piuttosto che nel bronzo, resta memoria di Mozart, Gioacchino Rossini o Paganini attraverso l’incisione delle loro composizioni, tramite registrazioni, dischi, opere complete, che ci consentono di riascoltarli. Un pittore si vede, un musicista si ascolta.

Guardare un monumento di Ludwig van Beethoven ci dice molto meno che ascoltare una registrazione della Terza sinfonia, Eroica, diretta nel 1951 da Wilhelm Furtwängler. Ecco perché nulla poteva far pensare all’opportunità che ci ha portato a questa occasione, apparentemente anacronistica: offrire alla città di Genova un monumento a Niccolò Paganini. Occorreva la grandezza di un uomo e la distrazione dei suoi posteri. Un signore di antiche radici e di grande famiglia, il principe Domenico Pallavicino, ha sobriamente manifestato la volontà di celebrare il grande musicista.

Poteva essere molto rischioso per i tempi impropizi e la sfrenata ambizione di artisti incapaci. Più incapaci che indisponibili. E comunque avvezzi a non agire su committenza, bensì seguendo il loro infelice pensiero. Arrivata a me la richiesta del principe, era difficile trovare l’artista capace e disponibile che non fosse offuscato da uno sfrenato orgoglio. A chi chiedere un monumento a Paganini?

Al più bravo e al più umile. Se si escludono i meccanici e i servili, proporre a un artista educato nel Novecento la scultura di un personaggio storico espone a una cervellotica interpretazione vagamente allegorica, certo non a misurarsi con la fisicità e l’aria dei tempi del personaggio celebrato. Soltanto Livio Scarpella, allievo del lirico Giuseppe Bergomi, che proprio in questi tempi si è applicato al monumento alla principessa Belgioioso a Milano, poteva, senza discutere, accettare la commissione e documentarsi sulla persona, sulla personalità, sulla psicologia, sui costumi del tempo di Paganini con un’immersione nel suo spirito che non l’eguale.

Al mostrare, nei lunghi mesi di sospensione della vita, i bozzetti del monumento al principe Domenico Pallavicino e al suo fido Claudio Senzioni, lo stupore e la meraviglia sono stati la mia maggiore consolazione. Paganini è davanti a noi, nell’atto di suonare il violino, vibrando in tutto il suo corpo per la musica che lo possiede.

Di fronte all’opera di Scarpella siamo tornati ai giorni del grande musicista, al suo patto col diavolo, tra Genova, Parma, Firenze, Milano, Roma, Vienna. Nella sua ricerca, Scarpella si è imbattuto in un folgorante disegno di Jean-Auguste-Dominique Ingres, del 1819, e ne ha tratto spunto per la sua rielaborazione, trasfigurando la condizione apollinea propria di Ingres, e misura del suo maestro Giuseppe Bergomi, in dionisiaca, attribuendo alla scultura un brivido, un dinamismo che allude al virtuosismo del musicista, ma anche alla sua conformazione fisica: si diceva che Paganini avesse fatto un patto con il diavolo per suonare con tanta abilità.

In generale il violino stesso era considerato lo strumento del diavolo: si pensi all’esecuzione paganiniana de Il trillo del diavolo di Giuseppe Tartini. Quest’associazione era favorita dall’aspetto: asciutto e scavato a causa della sifilide, e forse anche dalla sindrome di Marfan, vestiva quasi sempre interamente di nero. Il viso era cereo e gli occhi scavati nelle orbite; aveva perso tutti i denti a causa del mercurio usato per curare la sifilide e la bocca gli era così rientrata, mentre naso e mento si erano avvicinati. La tubercolosi che lo uccise gli aveva dato anche la necrosi mascellare. Quando Paganini suonava sul palcoscenico pareva a molti uno scheletro in frac con il violino incastrato sotto la mascella.

Scarpella ha voluto dare corpo a questa immagine in una interpretazione suggestiva e virtuosistica, in sintonia formale con l’idea dominante della musica di Paganini. Dopo aver inizialmente concepito una figura illustrativa, composta e placida, dove il musicista ci guarda, tenendo sotto il braccio lo strumento, capisce che in quel Paganini c’è la celebrazione della grandezza ma non c’è l’anima. Non deve fare il monumento a un morto, ma a un vivo, che è nostro contemporaneo, che suona per noi. Così reimposta la scultura, la rende elastica, ne allarga le gambe. E ce lo mette davanti mentre suona.

Paganini vive, si anima e si agita. Forse con rammarico Scarpella abbandona il disegno di Jean-Auguste-Dominique Ingres, pur così vivo nel segno veloce, e reinventa la testa con un’espressione formidabile, grifagna, animando gli occhi, scompigliando i capelli, perché si senta l’energia che in Paganini urge e fa saltare le corde. D’altra parte sappiamo che, per mostrare le sue doti di violinista, Paganini aveva l’abitudine di incidere le corde dei violini che utilizzava durante i concerti, in modo tale che si spezzassero, tranne una. Il fatto che proprio la quarta corda rimanesse integra ha un senso: il «sol» è la corda più espressiva del violino e con il suo suono neutro consente di passare dal grave all’acuto, in progressione.

Anche per questo le corde delle note «mi», «la» e «re» erano sacrificate: piegare l’archetto in modo tale da non toccare le altre corde non è materialmente possibile. Non ci riesce nemmeno il diavolo. Paganini unì la spettacolarità dell’esecuzione allo spirito dell’interpretazione con questo singolare espediente, che entusiasmava gli spettatori. Così nel tendere Paganini come un arco, con tutto il corpo vibrante e mosso, Scarpella sembra fargli dire le parole di Friedrich Wilhelm Nietzsche: «Ich bin kein mensch, ich bin dynamit», ovvero «Io non sono un uomo, sono dinamite». La scultura perde il suo «pondus», il suo peso, e si libra in un ritmo che fa sentire il suono prima che vedere l’uomo. Paganini è nella storia, ma la sua musica è presente.

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