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Non si cresce per decreto

Non si cresce per decreto

L’editoriale del direttore

Dopo due mesi di clausura e una crisi economica che rischia di essere devastante, gli italiani cominciano a farsi qualche domanda. In particolare i piccoli imprenditori e i commercianti.


Un amico mi ha raccontato quello che è capitato in queste settimane nella sua famiglia. Il figlio minore, che lo scorso anno ha lavorato due settimane in un albergo ricevendo uno «stipendio» di 400 euro, ha fatto domanda per avere il bonus di 600 euro che spetta a chi per colpa del Covid-19 è costretto a rimanere a casa e lo ha ottenuto. L’altro figlio, che invece è regolarmente assunto, ma la cui azienda ha chiuso a causa dell’emergenza, già a marzo è stato messo in cassa integrazione, al momento non ha visto un euro.

Forse qualcuno di voi penserà che le anomalie ci sono sempre state e capita spesso che ci sia chi ne trae guadagno, come nel caso del giovane che ha incassato in un mese più di quanto avesse preso in un anno. Tuttavia a me la storia pare un esempio lampante del caos che regna da quando il Paese è stato colpito dal coronavirus. In particolare, mi sembra il segno della scarsa attenzione che chi ci governa dedica a coloro che lavorano, siano essi dipendenti o imprenditori.

Confesso: ho la casella elettronica intasata da email di persone che lamentano il dramma in cui stanno vivendo. Nei primi giorni della pandemia come sapete ne ho pubblicate alcune, dedicando loro uno spazio in questa pagina e provando a rispondere. Ma nel corso delle settimane sono stato letteralmente travolto dalle lettere e dalle segnalazioni.

A prendere carta e penna, o meglio ad accendere il computer per inviare un grido di dolore, sono i proprietari di piccole aziende messe in ginocchio dalla crisi, ma tantissimi sono anche i commercianti. Alcuni di loro sono stati esclusi dal bonus per un cavillo, magari perché prendono 150 euro di sussidio a causa di un’invalidità. Altri semplicemente non solo non hanno ricevuto nulla, ma sono costretti a tenere chiusa la loro attività perché, secondo i parametri imposti da una task force il cui capo se ne sta comodamente nella sua casa con giardino a Londra, il loro negozio non rispetta i requisiti di sicurezza.

In particolare, mi hanno colpito alcune lettere, tutte di donne. La prima è firmata da Elisa, una signora di 60 anni che vive in provincia di Trento e ha un piccolo negozio di abbigliamento: ha chiuso la sua attività e ora non ha soldi per pagare né l’affitto né la bolletta della luce. Nessuno l’aiuta, nessuno le spiega quale sarà il suo futuro e quando potrà tornare alla normalità. Lo stesso scrive Rita, che in Piemonte fa la pettinatrice in proprio: i decreti del presidente del Consiglio le impediscono di ricominciare il suo lavoro e di aprire il negozio, perché la parrucchiera è ritenuto un mestiere ad alto rischio, in quanto non si rispettano le distanze di sicurezza. Da ultima mi ha scritto Giovanna, proprietaria di un piccolo bar nel Lazio. Anche lei ha dovuto tirare giù la serranda, come decine di migliaia di altri esercenti, ma a differenza di tanti suoi colleghi difficilmente potrà riaprire, perché il suo locale è giudicato troppo piccolo e dunque non in grado di assicurare il famoso distanziamento sociale necessario per evitare il contagio.

Certo, siamo tutti consapevoli che non si può rischiare una seconda ondata di coronavirus e tutti abbiamo visto studi che ipotizzano, in caso di riapertura, un collasso delle terapie intensive, con decine di migliaia di pazienti intubati (addirittura si parla di 150.000 malati: come li abbiano stimati è un mistero). E però qualche cosa non torna. Già, c’è chi infatti dovrebbe spiegare perché su un tram, che non ha più di 40 metri quadrati, possano salire più persone, ancorché con la mascherina protettiva, e in un bar con gli stessi metri quadri non possano entrare un paio di clienti. Allo stesso tempo non è chiaro perché altri Paesi, che pure in percentuale hanno avuto più contagiati di noi (prendete la Svizzera, che ha quasi un decimo della popolazione dell’Italia), i parrucchieri e tante altre attività commerciali hanno potuto ripartire da giorni e nessuno è stato rinchiuso in casa neppure nei momenti peggiori.

Insomma, gli italiani sono stati disciplinati e hanno accettato di buon grado gli arresti domiciliari, ma dopo due mesi di clausura e una crisi economica che rischia di essere devastante, con centinaia di migliaia di posti di lavoro persi soprattutto nel commercio e nell’artigianato, qualche domanda cominciano a farsela e, soprattutto, attendono qualche risposta. Scrive Rita, la pettinatrice in proprio: «Forse noi piccoli (ambulanti, parrucchieri, estetiste, commercianti e piccoli imprenditori) siamo meno importanti delle industrie o delle altre filiere? Anche noi abbiamo le nostre spese, le nostre famiglie e le famiglie dei nostri dipendenti, anche se a differenza dei “grossi” non abbiamo mai domandato niente. Noi non abbiamo mai chiesto sussidi e non abbiamo mai trasferito le sedi all’estero per pagare meno tasse e adesso, come ringraziamento, ci tenete chiusi. Vorrei che ognuno di voi, seduti al tavolino a dare ordini e comandare, venisse con me in negozio dal mattino sino alla chiusura. Dopo di che potrete tirate le somme».

Come darle torto? Uno stage dal parrucchiere riservato ad avvocati del popolo e cittadini in libera uscita in Parlamento non è una brutta idea. Forse aiuterebbe chi ci governa a capire che non basta un dpcm (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri) per guidare un Paese e tanto meno per farlo crescere.

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