Le sue «divine mondane», a cavallo tra Ottocento e Novecento, ritraggono la vita di quel tempo con una squisita sensibilità. Ed evocano i personaggi di Marcel Proust. Così l’artista ferrarese, che scelse la Francia ma con salde radici italiane, ci parla ancora oggi.
Ricordo ancora quel 1963, io poco più che bambino, il nome di Giovanni Boldini tornare con frequenza nelle conversazioni con un’aura magica… Nella piccola città provinciale erano arrivati i quadri di un grande pittore internazionale, amico degli impressionisti. Fu la prima delle grandi mostre, non ancora in quello che sarebbe stato un centro all’avanguardia nella promozione della cultura, Palazzo dei Diamanti, ma in un convento, in un chiostro.
Nella deformazione della memoria, a quasi quarant’anni di distanza, mi figuro di aver visto i quadri di Giovanni Boldini nel Convento di Sant’Anna, dove fu ristretto Torquato Tasso. La memoria, pur precisa nelle emozioni, nel restituire l’impressione che a me bambino faceva il nome di Boldini, sbaglia. Ritrovo il catalogo. La mostra fu a Casa Romei, dal 25 luglio al 31 ottobre di quel 1963, esattamente 30 anni dopo la prima grande mostra della pittura ferrarese del Rinascimento. Due occasioni epocali.
Dopo anni di silenzio e di ricostruzione, Ferrara cominciava a riconquistare il suo spazio nella cultura europea. Boldini fu il segnale della ripresa. Nel comitato, oltre al Patrocinio del Presidente della Repubblica Antonio Segni, ritrovo i nomi dei cari Mario Roffi e Francesco Loperfido, deputati ferraresi e amici, e anche quelli di Luigi Preti; nella commissione di allestimento, insieme alla grande vedova di Boldini, Emilia Cardona, allo studioso Enrico Piceni, allo storico locale Gualtiero Medri, anche, e già, Franco Farina, il futuro mitico direttore del Palazzo dei Diamanti.
In quell’occasione, Ferrara si gemellò con Parigi, la mostra veniva dal Musée Jacquemart-André, e la città ne ebbe gran lustro, l’orgoglio civico ne fu irrobustito. Tanto poteva un pittore, tanto poteva Boldini. Escluse Roma e Venezia, rare erano le imprese di questo impegno in Italia. Eppure si trattava di una riscoperta, e non si può dire che Boldini avesse avuto una grande fortuna critica fino a quel momento.
Certo, c’era stata la costante attenzione della Cardona, l’acutezza del giudizio di Annamaria Brizio e di Enrico Somaré, un’intuizione felice di Bernard Berenson nei suoi Pellegrinaggi d’arte. Boldini non aveva mai perso il favore del pubblico, il desiderio morboso dei collezionisti. Mentre si esaltano le Avanguardie del primo Novecento, negli anni Cinquanta, la critica lo ignora e lo deprime, un po’ come toccò a Gabriele D’Annunzio rispetto ai poeti ermetici. Il 1963 era anche il centenario della nascita di D’Annunzio, ma io sentivo grandi lodi di Ungaretti…
Eppure, basta che la galleria dei bei ritratti femminili di Boldini sia schierata in mostra a Ferrara che, come d’incanto, il nome di Boldini riprende tutta la propria gloria. Il ricordo che ne ho io, così nitido, passa, probabilmente, attraverso le riflessioni ad alta voce di mio zio, Bruno Cavallini, e dei suoi amici professori e intellettuali di valore, coltivati e sicuri nel gusto e provinciali quel tanto che bastava per rimarcare l’eccezionalità dell’occasione dello schieramento di tanti capolavori, così da imporre con l’ammirazione anche il giudizio certo di valore.
Rinasceva Boldini, rinasceva Ferrara: questa era la mia sensazione di ragazzo; ben prima che pensassi mai di fare il critico d’arte, avevo la consapevolezza della grandezza di Boldini. Non ho mai dubitato che la sua importanza, anche nei riflessi benefici verso la natia Ferrara, fosse proprio nell’indiscutibile dimensione internazionale rispetto a tutti gli altri pittori dell’Ottocento italiano. In questo, il destino di Boldini è simile a quello di Amedeo Modigliani. Partiti da piccole e colte città italiane e da una comune cultura macchiaiola, entrambi trovarono il proprio destino e la propria (diversa) fortuna a Parigi.
Difficile considerarli italiani nella compiutezza della loro esperienza pittorica, ma innegabili e non rinnegate le loro radici e anche la loro italianità di stile. Essi trapiantarono, in Francia, l’uno il nitore grafico di Simone Martini e Ambrogio Lorenzetti, l’altro il segno elettrico ed energico di Tintoretto e Tiepolo. Ma, dalla morte di quest’ultimo e per tutto l’Ottocento, la pittura italiana si era ristretta in una dimensione programmaticamente nazionale, poi risorgimentale e, per reazione all’Unità, locale, regionale, vernacolare.
È Boldini il primo pittore italiano a tornare europeo, a poter sostenere, ben più di Francesco Hayez rispetto a Eugène Delacroix o di Giovanni Fattori rispetto a Gustave Courbet, il confronto alla pari con gli artisti della sua generazione, gli Impressionisti: con Édouard Manet, con Edgar Degas soprattutto. E con loro e non, per esempio, con l’americano John Singer Sargent o con lo spagnolo Ignacio Zuloaga, pur grandissimi, va misurato Boldini. Con loro, Manet, Degas e con Henri de Toulouse-Lautrec.
Nei suoi mirabili ritratti, ma anche nelle sue vedute, si sente il respiro della grande tradizione europea degli olandesi come Frans Hals, degli spagnoli come Diego Velázquez e Francisco Goya, dei ritrattisti inglesi come Joshua Reynolds, Thomas Lawrence e, prima e più di loro, Thomas Gainsborough; e anche di Johann Heinrich Füssli. Le Venezie di Boldini hanno gli stessi cromosomi delle Venezie di William Turner.
Ma non si tratta mai di derivazioni o citazioni, neanche di ispirazioni. Boldini ha nel sangue la pittura italiana e la cultura europea: ne fa una miscela straordinaria, per primo intuisce il rapporto tra l’arte e la moda, la necessità di trasportare nella pittura la vita contemporanea, proprio come Toulouse-Lautrec. Ma, a differenza di Toulouse-Lautrec, egli aspira a una bellezza assoluta che trasferisce le sue occasionali, e pur blasonate, modelle in un Olimpo, in una dimensione ultraterrena, sempre un po’ sopra la terra, come la dannunziana Esterina di Eugenio Montale.
Difficilmente, tra sete, veli e cappelli, avvertiremo la sensazione che le figure femminili di Boldini condividano il nostro stesso spazio, posino i piedi (che spesso il pittore, volutamente, dimentica) dove noi posiamo i nostri. Esse incedono, come incorporee, senza peso, volano. Come sia riuscito Boldini a tenere insieme moda e interiorità, cronache quotidiane e dimensione eterna, resta un mistero. Può aiutare a risolverlo una qualche affinità con l’esperienza di Tiziano, formidabile ritrattista per il proprio tempo e per sempre.
Così come ci appaiono i volti e le fiere attitudini dei personaggi che egli ritrae, «divini mondani» e «divine mondane» sono i personaggi del suo universo pittorico, trasfigurati in un vortice onirico, «un mondo di donne-fiori, donne-piume, donne-ventagli, donne-antilopi, di ambienti come correnti subacquee, di vedute vertiginose di moti e di venti» come ha osservato Carlo Ludovico Ragghianti.
È molto forte, nel rapporto fra mondanità e spiritualità, l’affinità di Boldini con Proust. Con Proust più che con D’Annunzio; da osservare non soltanto la Passeggiata al Bois come una versione pittorica della Pioggia nel Pineto o il Nastro di velluto nero, uscito da una pagina del Piacere, o la Marchesa Luisa Casati, come la Foscarina del Fuoco, ma la sognante malinconica Principessa D’Isemburg-Birstein, il sorprendente Notturno a Montmartre o lo squarcio di visione nel Braccio femminile con fiori.
Di fronte a tali prestigiosi risultati, in cui il mestiere e il virtuosismo consentono di attingere a profondità insondate, immagino quale sarà stata l’emozione di Filippo De Pisis, anch’egli uscito dal confine, pur metafisico, della Ferrara ospedaliera di De Chirico, di Morandi e di Carlo Carrà, nell’incontrare Boldini a Parigi, alle prese con un vento d’angeli berniniano, dopo avere, nel Nudo di giovane su una bergère, tentato di doppiare anche Edvard Munch.
Impressionismo, Futurismo, Espressionismo, ogni tendenza si fonde dietro le lenti dei pince-nez boldiniani, in un cocktail di forme che non mancheranno di lasciare traccia anche nei pensieri spaziali di Alberto Giacometti e perfino, ancora oggi, di Giancarlo Ossola e Alessandro Papetti. E, ancora, Boldini apre ad Andy Warhol, a David Hockney, a Lucien Freud, ritrattisti, con diverse attitudini, di una condizione metafisica della moda. Nessuno come lui, se non forse Oscar Wilde, ha colto tanta profondità nella superficie, giungendo talvolta con la pittura all’equivalente musicale del tango e del jazz.
C’è un Boldini parigino, un Boldini londinese e un Boldini americano. La donna in rosa e il Ritratto di Mrs. Corbitt sono testimonianze di un artista che non può invecchiare e che trova gli stessi stimoli a Palermo come a New York, definendo per primo, come pittore dell’alta società, uno stile internazionale.
Rendere imperitura la moda: in questo riuscì Boldini: «È lo spirito che conta in pittura, non il mezzo. Lo spirito è sempre quello, il mezzo varia»; e pensava a Frans Hals, a Velázquez, a se stesso.
