Luigi Magnani puntava sempre all’impossibile e la sua vocazione l’ha portato a mettere insieme una galleria di capolavori ineguagliabili. Quest’«ultimo romantico» viene ora celebrato con una mostra alla Fondazione Magnani-Rocca.
«Si parva licet componere magnis». Il verso virgiliano affiora nella memoria guardando il catalogo della bella mostra dedicata a Luigi Magnani, l’ultimo romantico, nella villa di famiglia a Mamiano di Traversetolo dove dipinti e amici si sono dati appuntamento per celebrare lo scrittore, il collezionista, il musicologo. Ogni istituzione, ogni fondazione, ogni stretto amico ha contribuito con il prestito di un’opera, con un saggio o con una testimonianza per celebrare l’occasione nell’anno di Parma Capitale della cultura, un anno dilatato fino al 2021.
Il quadro più bello, a fianco di tanti capolavori della collezione, è il celebre Cavaliere in rosa di Giovanni Battista Moroni. Osservo ora che il «Cavaliere» ha la stessa faccia beffarda e tetragona di Maurizio Belpietro, il celebre giornalista di Palazzolo sull’Oglio, poco lontano da Bergamo. Ci aspettiamo di sentirlo parlare, netto, preciso, sarcastico, mentre si muove temporaneamente nella casa di Magnani, che vanamente lo aveva atteso.
È solo una delle sorprese, in verità la più grande, di questa bella esposizione-omaggio per ricostruire emozioni e desideri del grande collezionista. Come scrive Mauro Carrera, «esponendo il Cavaliere in rosa nella Villa dei capolavori si chiude un cerchio, si realizza un sogno». Solitario avrebbe voluto, Magnani, dialogare con quell’uomo elegante e disincantato nei lunghi pomeriggi d’estate, camminando nella Galleria dei maestri del Rinascimento selezionati con rigore e passione: Albrecht Dürer, Filippo Lippi, Ludovico Mazzolino, L’Ortolano, Tiziano Vecellio, Domenico Ghirlandaio.
Ero con lui alla fine degli anni Settanta, quando comprò a Firenze, a palazzo Capponi, il San Pietro Martire del Ghirlandaio, liscio e luminoso sulla tavola intatta. Ogni acquisto di Magnani era meditato, faticoso come un parto, in una ricerca selezionatissima. I curatori della mostra, Stefano Roffi e Mauro Carrera, oltre ad aver raccolto documenti e testimonianze di amici e di quanti furono «i colti frequentatori» della villa di Luigi Magnani, hanno fatto una operazione audace e sofisticata: prolungare e integrare il percorso di Magnani nella direzione delle sue passioni fondamentali, dei desideri inappagati, degli obiettivi mancati.
Così fu per la Caduta di San Paolo di Caravaggio della collezione Odescalchi, vagheggiato e perduto. Così per il Cavaliere in rosa. Ciò che rendeva leggendario Magnani, e gli attribuiva un’aura mitica, era proprio la ricerca dell’impossibile, la caccia alla balena bianca. Spesso, nell’esperienza del collezionismo, i quadri cercano te, sembrano aspettarti, appostarsi perché tu li trovi sulla tua strada. E così si costruiscono le collezioni: per avvicinamenti.
Il percorso è un viaggio, con avvistamenti, segnalazioni, senza una meta. A un certo punto si compone un percorso, che non è quello immaginato, e che non corrisponde a quello iniziato. Ci sono stati incontri; e, a posteriori, hanno consentito di comporre un disegno riconoscibile. È il tuo identikit involontario, ti rivela, prima che agli altri, a te stesso. Ogni collezione è un’autobiografia. Ci sono vite compiute e vite irrisolte.
Magnani aveva un’ansia e un’ambizione che non si potevano contenere. Mai egli poteva accontentarsi: l’obiettivo era alto, impervio, lontano. Ma l’ostinazione lo rendeva raggiungibile. Spesso le opere, misteriosamente, ci cercano, ci trascinano verso di loro. Se la collezione di Magnani è stata così importante e unica è perché nell’antico e nel moderno ha cercato l’impossibile, l’introvabile, misurandosi con la storia, nell’aspirazione all’unicità. Nel caso suo si può dire: «Moby Dick non ti cerca. Sei tu, tu che insensato cerchi lei!».
Soltanto così si spiegano le conquiste più imprevedibili e imprendibili dei maestri più grandi, per catturare i quali Magnani si era «appostato» con determinazione e tempo infinito, senza incertezze, per raggiungere l’obiettivo: il meraviglioso Tiziano giovanile, il Alfred Dürer, il Francisco Goya.
Non c’è l’equivalente di imprese così titaniche nel collezionismo recente: a quell’altezza non giunsero né Hans Heinrich Thyssen né Norton Simon, né Jean Paul Getty (se non con l’acquisto di opere trafugate). Un vento favorevole accompagnava «Achab» Magnani, e alle conquiste impossibili si alternavano i fallimenti, come nel caso del Caravaggio e del Moroni.
Certo, Magnani non si accontentava, e dove non era il capolavoro inarrivabile, l’impegno era nella costituzione di un corpus unico come la raccolta dipinti di Morandi, testimonianza di un’amicizia raccontata nel libro Il mio Morandi. Di nessuno, fra i suoi collezionisti, il riservato Morandi fu più intrinseco amico di Magnani. E anche qui la sua ostinazione raggiunse l’impossibile.
I temi di Morandi sono pochissimi e circoscrivibili nello spazio del suo studio, gli oggetti per le nature morte, o nei paesaggi fuori di casa, a Bologna o a Grizzana. Magnani intercettò di Morandi uno dei rarissimi autoritratti, quello del 1925, dove la pensosa attitudine del pittore, pur nel riferimento esplicito al mestiere, con la tavolozza e i pennelli, indica una concentrazione, una riflessione e perfino un’ossessione che vale come un irresistibile diapason di pensiero. Nel suo autoritratto Morandi manifesta una densità di espressione che lo assimila a un filosofo, un simile di Ludwig Wittgenstein.
Nonostante la potenza non è un unicum: Morandi ha dipinto altri due autoritratti. Ma ciò che è assolutamente unico è la Natura morta di strumenti musicali del 1941, omaggio delicato e dedicato all’amico musicologo, con l’invenzione di oggetti creati a memoria: una chitarrina, un flauto, una viola su un tavolo. Un’immagine sorprendente e umile, ma soprattutto unica, commovente nella fragilità, con un gesto senza precedenti, una smodata dimostrazione di affetto per un uomo riservato come Morandi.
Consapevoli di questa unicità, i curatori, fra gli altri omaggi, hanno nutrito la loro proposta di una notevole serie di dipinti di soggetto musicale, che fanno coro a quello di Morandi. È la parte più imprevedibile della mostra, sotto il titolo Musica dipinta. L’insolita proposta allinea Il Violoncellista di Cagnaccio di San Pietro proveniente dal Mart di Rovereto, un sobrio e composto Antonio Donghi, due scatole prospettiche, come tarsie lignee, di Achille Funi e Gigiotti Zannini, un romantico e sognante Piero Marussig, un inaspettato e intenso Afro Basaldella del 1937, con la colta citazione interna di un dipinto di soggetto musicale in una stanza con strumenti musicali, un Gregorio Sciltian di impianto potente ispirato a Evaristo Baschenis, un imprevedibile e vellutato Xavier Bueno, con un violino dentro la sua custodia e la citazione di una cartolina di Francisco Goya. E poi Gino Severini, Campigli, la bellissima Antonietta Raphaël, romantica e sognante, e un Fausto Pirandello inquieto e sfrangiato, entrambi dalla importante collezione di Giuseppe Iannaccone.
Sono quadri comunque rari, e in una armoniosa costruzione che sembra prolungare la ricerca di Magnani in un ambito di sua stretta competenza. Sarebbe felice di vedere tanto ostinata determinazione di ricerca, Magnani, così intimamente felice di aver conquistato il suo unico Giorgio Morandi e i tre Filippo De Pisis, l’arioso Wolfgang Amadeus Mozart, l’evanescente Citaredo, la sensibilissima Tromba sulla spiaggia, dipinta a San Barnaba a Venezia. Come suoi sono la Natura morta con strumenti musicali di Gino Severini, la post-cubista Natura morta con pianoforte di Renato Guttuso, i disegni di Fabrizio Clerici, i vertiginosi Ruggero Savinio e Giorgio De Chirico. La sezione musicale continua con Michelangelo Pistoletto, Claudio Parmeggiani, Nicolas De Staël e pianoforti, fortepiano, arpe di Magnani e di Fernanda Giulini.
Utile è anche l’esclusivo dossier degli amici e dei frequentatori di Magnani. Tra le personalità più notevoli del secolo scorso, Bernard Berenson, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Cesare Brandi, presenti in fotografia o con dipinti. E ancora Giulio Carlo Argan, Alberto Arbasino, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino, Renato Guttuso, Federico Zeri, Harold Acton. Ci sono anch’io, in un ritratto del compianto Giorgio Balboni. Ne sono lusingato; ma non posso fare a meno di osservare che sono l’unico vivente. Resto il testimone sopravvissuto di una leggenda.
