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Longhi, l’esploratore del Novecento

Longhi, l’esploratore del Novecento

Figura fondamentale per la storia dell’arte, il critico scomparso 50 anni fa ha «scoperto» Caravaggio, ma ha anche indicato i valori assoluti in personalità come Umberto Boccioni e Alberto Burri, Giorgio Morandi e Giorgio Morandi. Un saggio ne ripercorre le intuizioni.


«Col tempo, dopo la guerra, i rapporti di Longhi con gli sviluppi dell’arte moderna si allentarono e si deteriorarono. Tolto Morandi, la pittura che aveva intorno non gli piaceva. Ironizzò ferocemente su Giorgio De Chirico («Al dio ortopedico»), anche se cominciò a rispettare Carrà; e storse il naso, a dir poco, davanti a Braque e Picasso».

Sono probabilmente queste parole di Cesare Garboli a stimolare, nel cinquantesimo anniversario della morte di Roberto Longhi, Mauro Pratesi a scrivere il suo saggio Roberto Longhi nel vivo dell’arte del ‘900 (Pisa University press), con introduzioni di Mina Gregori e Carlo Bertelli, uno dei pochi contributi sul grande critico d’arte usciti in occasione di questa importante ricorrenza. In tanti avremmo avuto buone ragioni per ricordare con saggi e mostre il magistero di Longhi. Soltanto i tempi difficili possono giustificare una tale distrazione, ma dobbiamo riconoscere a Pratesi di non aver perso tempo.

Dei tanti aspetti su cui si poteva approfondire la ricerca sulle illuminazioni longhiane, dalla pittura del Trecento a Piero della Francesca, dai pittori ferraresi del Rinascimento a Caravaggio, su cui il critico ha aperto a strade nuove e ancora percorse, Pratesi ha scelto quella più controversa e percorsa in modo rapsodico, con risultati discontinui. È innegabile che, ai suoi esordi di forte suggestione futurista, Longhi si svolga come un critico militante. Il suo primo saggio è sulla scultura futurista di Umberto Boccioni, vivente l’artista.

Ma è subito chiaro che l’arte contemporanea, per Longhi, non è soltanto quella del proprio tempo, ma quella la cui essenza si esprime in una forma atemporale perfino nella indifferenza al percorso narrativo. È il caso di Piero della Francesca di cui Francesco Arcangeli, il primo allievo di Roberto Longhi, osserverà la convergenza con Piet Mondrian.

E già con questo uno/due, Longhi ci porta verso una nuova concezione della storia dell’arte che non è semplice racconto storico. Per quello che vale, per lui, «a guerra finita, insabbiatosi il futurismo, sorta la letteratura «metafisica» del De Chirico, che, poco dopo, il movimento dei Valori plastici, cui non partecipai, tentava inutilmente di mettere d’accordo con la pittura di Morandi, che è ancor oggi la punta più avanzata dell’arte moderna, mentre il pensiero dei fondatori del movimento era in sostanza uno dei “rappel à l’ordre” di quegli anni che si dovevan concludere per noi con la cultura magari strenuamente arcaizzante, ma in essenza reazionaria, dell’imminente Novecento, risorse in me più forte l’esigenza personale di approfondire storicamente le zone più malintese dell’arte italiana».

È evidente che qui siamo già entrati nella autocertificazione critica, e che Longhi ci indica il suo percorso nell’arte contemporanea fuori dei confini cronologici: «Può tornare utile anche una lista preferenziale come viene fuori dalla mia lunga frequentazione con Morandi. Eccola, nell’ordine dei tempi: Giotto, Masaccio, Piero, Bellini, Tiziano, Chardin, Corot, Renoir, Cézanne».

È un perimetro preciso e atemporale, ma non è una visione rapsodica, se nel saggio fondamentale Momenti della pittura bolognese Longhi chiude con un omaggio pienamente storicizzato a Giorgio Morandi. «E finisco col non trovar del tutto casuale che, ancor oggi, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi, pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però, saputo sempre orientare il suo viaggio con una lentezza meditata, con un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo “incamminato”».

Il tributo di Longhi all’arte contemporanea non va molto oltre questo confine. Nel cuore delle riflessioni di Pratesi c’è il momento di massima attenzione del pensiero longhiano che coincide con la rivalutazione di Caravaggio, contemporaneo per eccellenza. La chiave pertinente è Pier Paolo Pasolini, allievo di Longhi all’Università di Bologna nei primi anni Quaranta.

Probabilmente Pratesi ignora che io fui il primo, in un articolo sul Sole 24 Ore, a stabilire il nesso Caravaggio-Pasolini che, nel 1990, fu svolto da Cesare Garboli: «È difficile scindere tutta l’esperienza eversiva del Pasolini romano degli anni Cinquanta dall’immagine del Caravaggio che ci è stata più volte offerta da Longhi […] Testi alla mano si direbbe che il Pasolini lavorasse allora non allo specchio del Caravaggio ma allo specchio del Caravaggio romano così come ci è stato dipinto dal Longhi». E i personaggi pasoliniani, da Ninetto Davoli a Franco Citti, allo stesso Pino Pelosi, sembrano ispirati ai modelli delle opere giovanili di Caravaggio a Roma, come il ragazzo con il cesto di frutta, il bacchino malato, il ragazzo morso dal ramarro, i musici del Metropolitan e dell’Ermitage.

L’intuizione più originale di Pratesi è nel rapporto con Alberto Burri, tema dominante della mostra Caravaggio. Il contemporaneo, allestita al Mart di Rovereto: «Consideriamo che nel corso degli anni Cinquanta l’Italia si trovava in una precisa svolta culturale ove la mostra caravaggesca del 1951 e le altre testimonianze critiche intorno a Caravaggio sono un nodo imprescindibile. Da tale fervente officina di idee presero le mosse artisti assai diversi tra loro, ma che in comune avevano la predestinazione di un segno da lasciare alla storia delle idee tra i più alti ed incisivi di quegli anni: possiamo prendere in esame accanto a Pasolini un altro grande talento, Alberto Burri, il quale credo che accogliesse per analogia lo spirito del tempo proponendo una aggiornata e non mimetica visione del realismo, che è, in certo qual modo, debitrice al dibattito caravaggesco proposto in primis da Longhi».

E questo mostra Longhi andare ben oltre le debolezze per Gregorio Sciltian e Guttuso. La sovrapposizione estetica di Caravaggio e Burri è stata da me misurata sul Seppellimento di Santa Lucia, il cui fondo è ispirato, nella sua scabra desolazione, alla necropoli e alle latomie di Siracusa. Ciò che Pratesi racconta nel libro, io ho voluto evidenziare nella mostra, spingendomi fino al Grande cretto di Gibellina.

In particolare, la dura potenza del linguaggio di Caravaggio rende inevitabile l’accostamento a Burri, che fa della manipolazione brutale della materia una delle sue principali cifre stilistiche. Nella sua poetica, muovendosi verso un nuovo equilibrio formale, c’è sempre il concetto di consunzione, partendo dalla serie dei «sacchi», con l’uso della tela grezza, logora e rammendata, come nella parte inferiore del dipinto di Caravaggio, dove il colore è così sgranato che la tela riemerge e l’effetto «sacco» è ancora più evidente.

Il tema della ferita emerge anche nelle «combustioni», dove il materiale plastico o ligneo viene bruciato e la corrosione della materia diventa l’elemento espressivo dell’opera; o ancora nei «cretti», il cui aspetto richiama la terra essiccata e infine nei «ferri», dove il metallo è piegato alle crude esigenze poetiche dell’artista.

La materia lacerata e ferita, sembra assumere un aspetto umano, fuori di metafora. Il nesso dunque è concettuale, una connessione tra il senso di morte e di disfacimento della forma nell’opera di Burri e di forma che si dissolve nel Seppellimento di Santa Lucia. Il saggio di Pratesi è una ulteriore conferma del buon metodo della mostra del Mart. Una felice coincidenza, frutto di ottimi studi.

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