A Ferrara, l’opera di questo pittore da sempre inafferrabile per la critica trova il suo giusto spazio. E la sua personalità, con i suoi colori, i suoi animali, svetta in un’arte del Novecento che troppo spesso sembra aver paura della vita.
Ligabue è un artista inclassificabile. Appare assolutamente anomalo fra i pittori del Novecento. Nel tentativo di trovargli una posizione nella storia, alcuni critici, come Renato Barilli, lo hanno confinato nella corrente primitiva, che, in Italia, è rappresentata da artisti come Alberto Magri, Lorenzo Viani, Gino Rossi. Il limite di questi ultimi è che erano artisti veri e propri, mentre Ligabue non era un artista, o meglio un artista riconosciuto. Per questo, nella storia dell’arte, Ligabue non c’è. I critici, infatti, non sapevano dove metterlo. Argan non lo cita, neppure Calvesi. Ligabue è la natura, non l’arte. Lo si comprende confrontando le sue opere con quelle di Morandi, un grande artista anemico, nevrotico, che è sempre stato in casa sua, non è mai andato su un argine di un fiume, non ha mai visto le tigri allo zoo di Gualtieri.
Ligabue è stato accostato a Henri Rousseau che, a mio parere, non vide neppure. Etichettarlo come pittore «naïf» significa confinarlo in un mondo separato dalla vita, un mondo di persone oziose che creano favole. In Ligabue non ci sono favole, ma la vita degli uomini. Ligabue è nella vita di tutti i giorni, anche nelle circostanze più tragiche e dolorose. Tutto questo non c’è in de Chirico, che è pure un artista abbastanza crudele, non c’è in Morandi, e neppure in Carrà, che dipingeva cartoline. La pittura di Ligabue è una proiezione metaforica del mondo nel suo stato di ebollizione, di violenza implicita nella forza. Nella sua espressività animale si misura soltanto con Van Gogh, del quale può considerarsi una variante italiana.
Un artista, Renato Marino Mazzacurati, lo introduce negli anni Cinquanta nel mondo dell’arte. Poco dopo irrompe nella storia attraverso Cesare Zavattini, regista, sceneggiatore, scrittore, giornalista, nonché disegnatore e pittore, che gli dedicò la prima monografia, edita da Franco Maria Ricci nel 1967. Ricci mette le calze di seta a Ligabue, lo fa vivere in una monografia bella, elegante, e tanto più, quindi, dissonante rispetto a un artista selvaggio, sporco, impuro.
Molti anni dopo, nel catalogo della mostra in Palazzo Reale a Milano, Ricci, con un’altra intuizione, pubblicherà una sequenza di 200 autoritratti come fotogrammi, con un effetto di ossessione particolarmente efficace. A Parma, nel 1972, vidi la prima mostra su Ligabue curata da Mario De Micheli. Una mostra di sculture, di bronzi ricavati da terre crude, creazioni meravigliose realizzate da un uomo – non uno scultore – che era riuscito a rendere viva l’argilla del fiume. Così nascono anche i suoi dipinti, che ci coinvolgono. I soggetti più ricorrenti sono il suo volto e gli animali, in giungle trasferite sul Po, che non sono sogni, e neppure documentari.
L’autoritratto non è per lui una forma di narcisismo, esprime la necessità di capirsi meglio, in un processo di autoanalisi. Ligabue ci vuole dire di sé e di un mondo interiore. Fuori dal confine protettivo delle mura domestiche, a Gualtieri, in un’Italia diversa e remota, ancora sotto i bagliori della guerra, c’è la minaccia di una natura insidiosa, un mondo di animali selvaggi, tigri, serpenti, leoni, nulla di diverso dall’umanità che quella guerra ha combattuto e subìto, ma non ha saputo evitare. Anche l’uomo è un animale feroce, e Ligabue sembra descrivere la formula: homo homini lupus. E se quegli animali li ha visti soltanto allo zoo, li ritrova negli uomini che lo circondano, gli uomini che non si voltano. Ligabue descrive un mondo; non ha altro interesse. Questa sua poetica così istintiva, non costruita, questa sua arte che è sopratutto necessità di espressione, lo ha fatto diventare un caso isolato nella storia dell’arte del Novecento. Ed ecco il limite dei critici, che dovrebbero stabilire cosa accade, e non cosa dev’essere l’arte.
Come ho fatto recentemente con Caravaggio al Mart di Rovereto, Ligabue andrebbe accostato a una figura importante, centrale, prediletta dai critici, come Alberto Burri. Un confronto tra un artista che è interamente nell’arte, e dunque nella forma, come Burri, e un artista totalmente fuori dell’arte, come Ligabue. L’opera di Burri è la negazione dell’immagine antropomorfica. Ligabue è l’opposto, è iper-antropomorfico. I suoi animali sono persone, viventi e parlanti, sono davanti a noi. Le sue opere sono l’antitesi totale del formalismo della pittura del Novecento. Si pensi a un Kandinskij, a un Klee, che raccontano l’impotenza dell’uomo e la morte di Dio. Tolto un dipinto di Severini, e un altro di Garbari, nel Novecento non troviamo più una Madonna, un Cristo, un santo. Non c’è in Picasso, in Morandi, in Carrà, in Boccioni. Dio è sparito. Eppure siamo tutti cristiani. Tutta la pittura del Novecento è senza Dio. In Ligabue, invece, Dio c’è.
Rivive nei suoi animali, che hanno l’anima. Non potendo dipingere Madonne e santi, dipinge quello che incontra. In Ligabue emerge la vita, in Burri la morte. Lo dimostra il suo capolavoro, il Grande cretto, un’immensa lapide sulla città vecchia di Gibellina, distrutta dal terremoto. La grandezza vitalissima di Burri è proprio nel dialogo con la morte. Ligabue, invece, la tiene lontana, non le dà spazio. Proprio per questo occorrerebbe affiancarli, per verificare due assoluti in lingue completamente diverse.
Gli animali di Ligabue sono vivi e la loro vita è la sua forza. Sono simboli di energia, emblemi di un desiderio di libertà, di riscatto. Umiliato ed emarginato, si afferma come pittore attraverso la potenza gloriosa dell’animale. Nessun altro ha la sua energia. Ligabue è più popolare, democratico, è contro la società (non solo quella fascista), e lo sa bene chi l’ha frequentato. Non accettava le regole. La sua felicità era la sua motocicletta, che ruggiva come le tigri. Un’evidente metafora di un animale nella foresta.
Ligabue animava le cose. Non addomesticava gli animali, ma li incitava. Del resto, anche i migliori domatori dei circhi finiscono per essere mangiati. Ecco, questo è Ligabue: sta dalla parte dell’animale, e viene mangiato. La sua pittura è la massima difesa della natura. La tigre domina la giungla, la sua aggressività è vincente, ma la sua vittoria è un pericolo, come quella degli uomini. Ligabue parla di sé, definisce il suo mondo, visto e immaginato, e comunque reale. E proprio per questo è arrivato il momento che la critica traditrice e cinica riconosca la sua grandezza.
A parte alcuni, me compreso, i critici che non sono riusciti a misurarsi con lui lo hanno confinato nell’abisso, negando la sua esistenza. Forse perché non rientra nelle categorie da loro stessi codificate. Io, assieme agli altri (rari)critici non schierati, non allineati, combatto affinché Ligabue non venga messo in gabbia. Tutto il racconto dell’arte del Novecento è scandito da gruppi (Dadaisti, Futuristi, Surrealisti…) e movimenti (Arte povera, Transavanguardia…), forse perché gli artisti che vi appartengono sono forti soltanto assieme. Da soli risulterebbero troppo deboli.
Ligabue invece è solo, drammaticamente, ostinatamente solo, non appartiene a «partiti», non ha ideologie. È uno che non sta bene da nessuna parte, non va bene per la buona società; e questo lo rende grande. È più che un pittore e più che un artista. Ora, superando la barriera dei pregiudizi, Ligabue arriva a Palazzo dei Diamanti, e grida dalle pareti di un museo. Non avrebbe potuto pensarlo, nei giorni e nelle notti del suo tempo difficile, disperso nelle campagne, tra solitudine e disperazione.
