Home » Attualità » Opinioni » I carissimi nemici di Ilda la rossa

I carissimi nemici di Ilda la rossa

I carissimi nemici di Ilda la rossa

Una lettura ragionata (e fuori dal coro) dell’autobiografia di una protagonista della stagione di Mani pulite. Dove la Boccassini che si definisce «donna con il vizio di fare di testa sua» ha parole dure, inaspettatamente, per gli ex compagni di strada e di inchieste. A cominciare dalla star Antonio Di Pietro.


«Tu sei il ministro. Mia madre dice che hai una faccia di c…». L’autore della citazione presocratica è un bimbo che sta aspettando il pulmino per andare a scuola, il ministro (della Giustizia) è Francesco Paolo Bonifacio, vicino di casa del bimbo nella Napoli più spettacolare. E la madre è una giovanissima Ilda Boccassini che a pagina 17 della sua autobiografia rivela, con l’aneddoto, un destino che l’accompagnerà per tutta la vita: la conflittualità latente con numerosi colleghi e superiori, con una collezione di «carissimi nemici» nei corridoi dei tribunali, nello studio dei fascicoli più scottanti, in riunioni tempestose nelle quali il suo carattere spigoloso deborda omerico e prepotente.

Lo storico Alessandro Barbero non ha letto La stanza numero 30, sottotitolo Cronache di una vita (Feltrinelli). Se lo avesse fatto si sarebbe risparmiato il commento sulle donne che «hanno meno successo degli uomini perché insicure e poco spavalde» e la conseguente gogna social. Boccassini è simbolo del contrario: mai arrendevole, raramente incline ai compromessi, fin dai primi anni si fa largo con lo sguardo al laser in un mondo di uomini. Quando nel 1979 arriva a Milano con cinque colleghe, il procuratore capo Mauro Gresti rilascia un’intervista di benvenuto al Corriere della sera: «Al di là della preparazione e delle capacità innate delle singole persone, il lavoro di inquirente poco si adatta alle donne, specie se alle prime armi». Partenza in salita con pregiudizi da scardinare. La battagliera Ilda esordisce con un frontale con una star, Armando Spataro. «Ero una selvaggia, come mi definì Giovanni Falcone» scrive. «Ovvero una giovane donna con il vizio di fare di testa sua e di dire a chiunque quello che pensava. Non mi smentii nemmeno quando venni convocata dal capo che voleva sentire la mia versione sul contrasto con Spataro. Nell’ufficio di Borrelli, più che spiegarmi diedi sfogo al mio nervosismo (…). Nessuno di noi due cedette di un millimetro, volarono parole incandescenti, finché non si ottenne la mia testa». In una simile tempesta anni dopo rompe con un amico dai tempi dell’operazione Buscetta: l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro.

Vale la pena conoscere l’inquilina della stanza numero 30 della Procura di Milano. È una ragazza della Napoli bene, cresciuta dentro un Sessantotto scandito da collettivi, gonnellone a fiori e comizi di Enrico Berlinguer. Sopra la culla del figlio che avrebbe rimbrottato il ministro non c’era un’immaginetta religiosa ma un manifesto con un mitra e la scritta «No al crimen politico», riferito al golpe cileno. Idee chiare di sinistra, patente democratica di chi è convinto di camminare sul lato illuminato del marciapiede. Da qui Ilda la Rossa, non solo per la chioma tinta henné scelta a quel tempo e mai più cambiata, almeno lungo il percorso professionale.

Con Borrelli il rapporto torna ottimo e la stima dura per sempre. È il suo totem, gli dedica un necrologio folgorante: «Hai resistito alle lusinghe del potere, la tua integrità è stata un esempio per chi, come me, non ha ceduto a compromessi. Dopo di te, solo tenebre. Già mi manchi». Il procuratore è uno dei pochi magistrati trattati bene nel libro, con Gherardo Colombo, il primo Edmondo Bruti Liberati, Paolo Storari, ovviamente Giovanni Falcone del quale è innamorata. E Roberto Saieva, che nel periodo di Caltanissetta le confeziona un soprannome: Maria Goretti in Fantozzi. «Quella strampalata definizione – mix di coerenza da martirio e di frustrazioni al limite della comicità – mi calzava a pennello».

Del club non fa parte Antonio Di Pietro, liquidato ricordando la morte di Borrelli. «Come prevedevo ci furono alcuni colleghi che pensarono bene di sfruttare anche quella circostanza per il tornaconto personale. Addirittura insopportabile, per me, la scena di Di Pietro inginocchiato accanto alla bara». Un simile fastidio trapela all’obitorio di Palermo dove giace Giovanni Falcone dopo la strage di Capaci. Così ricorda Boccassini: «In quel momento c’erano anche tre colleghi palermitani. Uno di loro venne verso di me ma lo respinsi con un gesto rabbioso: sapevo che tutti e tre avevano ostacolato Giovanni, vivevo la loro presenza in quella stanza come un insulto alla sua memoria».

Nell’autobiografia ha parole dure per i colleghi del processo Andreotti a Palermo, Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte. «Quando, per provare le accuse, un pm ha bisogno di citare decine di testimoni o di chiedere al tribunale di far acquisire una vignetta (quella di Giorgio Forattini) significa che l’impianto accusatorio è debole e si contribuisce alla dilatazione oltremisura del dibattimento». Una stroncatura di metodo con un’aggiunta inedita per Scarpinato, oggi procuratore capo: «Il chiacchiericcio attorno a una presunta simpatia fra me e Scarpinato mi fece arrabbiare (…). In primo luogo perché era stato uno dei magistrati che avevano ostacolato Giovanni quando era in procura, in secondo luogo perché dissentivo dalle sue interpretazioni del fenomeno mafioso. Infine non ho mai apprezzato il suo stile da narciso siciliano, perfettamente rappresentato dall’acconciatura alla D’Artagnan». È più gentile (con una punta di perfidia) con Gian Carlo Caselli, del quale ricorda l’ossessione per la spazzola e la lacca per «l’impeccabile ciuffo bianco».

Demolisce Antonio Ingroia, «paladino dell’antimafia, filone redditizio in termini di carriera e visibilità mediatica. Piccoli miti fugaci dissolti come neve al sole». Quando partecipa a Reggio Calabria alla maxi inchiesta sulla ‘ndrangheta incontra Nicola Gratteri e fa il contropelo pure a lui: «Creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno approfondita e a suo dire unica. A stento ci salutava. A detta di chi lo conosce a fondo, per Gratteri far parte di un pool senza esserne il leader non ha alcun significato».

Trasformare il libro in un romanzetto rosa com’è accaduto – e a questo ha contribuito lei stessa – è un depistaggio di sistema (anche mediatico); in quelle pagine c’è la narrazione di retroscena, comportamenti, perfino tic che fanno rientrare magistrati mitizzati per 30 anni nella balzachiana comédie humaine dell’uomo qualunque. Anche il pool di Mani pulite scricchiolava. «Il peso delle inchieste gravava su di me e Colombo mentre Davigo, Ielo e Greco si occupavano di altro». E alla richiesta di condurre i dibattimenti «Davigo era contrario e disse che se lo costringevano ad andare in aula avrebbe intentato causa civile per astenersi». Negli ultimi anni il suo rapporto con Greco, diventato procuratore capo, si deteriora «per le sue non-scelte». Così, la più tellurica dei pm toglie dalla parete della stanza numero 30 il poster del film Gli intoccabili e va a casa. «Ho lasciato la Procura senza nemmeno salutarlo». L’unico riconoscimento gli arriva involontariamente da Luca Palamara che a proposito della corsa a capo della Procura di Milano scrive: «La prima candidatura a saltare è quella di Ilda Boccassini, che non avendo nessun aggancio né con le correnti né con la politica esce subito dai giochi».

© Riproduzione Riservata