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Dal governo vogliamo decisioni, non «indicazioni»

Dal governo vogliamo decisioni, non «indicazioni»

L’editoriale del direttore

Per ripartire, altrove si decide, si trovano soluzioni, si prendono misure urgenti. Da noi, «presto» il governo ci farà sapere.


In queste settimane ho ricevuto moltissime lettere. Sarà perché chiusi in casa si è più portati a scrivere. Sarà perché ciò che stiamo vivendo spaventa. Sta di fatto che ogni giorno sono numerosissime le email che giungono in redazione. Alcune le ho pubblicate nella pagina dell’editoriale, rispondendo ai quesiti che mi venivano sottoposti. È giusto dare la precedenza ai giovani nelle terapie intensive? Come faranno le nostre aziende a sopravvivere dopo due mesi di chiusura? Perché si fa così fatica nel nostro Paese a fare quello che serve, compreso comprare delle semplici mascherine che difendano dal virus? Sì, le domande sono state le più varie.

Ma mentre si avvicina, speriamo, la cosiddetta ora della ripartenza, cioè il momento in cui sarà dichiarata la fine del lockdown e si comincia a pensare al ritorno a una vita normale, le lettere che ricevo propongono quasi tutte un solo tema ed è quello del sostegno alle attività imprenditoriali. C’è il costruttore che si interroga sul senso di un blocco dei cantieri che come unico risultato rischia di produrre più disoccupazione invece che più sicurezza; c’è la componente di un complesso musicale che si chiede perché gli artisti siano stati dimenticati da tutti, fantasmi lasciati soli davanti a quella che si annuncia come una spaventosa crisi economica; c’è il fabbricante di mobili da ufficio che critica «il modello italiano della gestione dell’emergenza Covid-19».

A leggere una in fila all’altra queste mail, si coglie più che la voglia di ricominciare la paura per quello che sarà. Sì, in molti hanno voglia di rimboccarsi le maniche e ritornare al lavoro, ma sanno che non sarà semplice. Due mesi di blocco, con la chiusura di un intero Paese non si recuperano solo riaccendendo la luce. L’Italia non è un dispositivo elettrico a cui basti ridare la corrente per vedersi illuminare le insegne e girare la ruota. Ci sono settori che avranno bisogno di tempo per riavviarsi, perché gli ingranaggi devono tornare a incastrarsi. Prendete il settore dell’auto, uno dei più colpiti dal lockdown, perché se si è agli arresti domiciliari non si può uscire di casa e dunque nessuno pensa a cambiare auto.

Quando ci sarà restituita la libertà di muoverci, non ci verrà ridata la fiducia che avevamo mesi fa e dunque, prima di fare il gran passo, cioè di investire decine di migliaia di euro per una nuova vettura, ci penseremo bene. Cioè: le catene di montaggio potranno anche tornare a sfornare veicoli, ma la catena delle compravendite, delle visite dal concessionario, non è detto che si muova altrettanto velocemente. Anche la produzione, a dire il vero, potrebbe non essere così spedita come ci si immagina, perché ormai i cicli sono integrati e ciò che viene assemblato a Melfi, nel caso di Fca, o a Monaco di Baviera, per quanto riguarda la Bmw, può essere prodotto altrove, in Italia oppure in Serbia.

Prendete le acciaierie, tra le poche aziende che per ragioni tecniche hanno continuato a lavorare: oggi i loro magazzini sono intasati e rischiano di dover spegnere i forni per un eccesso di stoccaggio, in quanto non sanno più dove mettere tondini e lastre di acciaio. Se si fermano, prima di riaccenderle serviranno altro che due mesi e lo stop ricadrà inevitabilmente a cascata sui cantieri e anche sulle linee di montaggio delle automobili. Voglio dire: un Paese non è una macchina che si parcheggia in garage, la si lascia ferma per un paio di mesi e poi, quando è ora di ripartire, si gira la chiave e si ricomincia a correre. Un Paese, la sua produzione, la sua economia, il suo sistema bancario e di distribuzione, sono qualche cosa di più complesso di un semplice motore elettrico.

Purtroppo mi pare che a Palazzo Chigi nessuno al momento abbia colto le complessità. Anzi. Per dare alle aziende la liquidità di cui hanno bisogno hanno trovato la soluzione di farle indebitare di più. Niente aiuti, solo prestiti e per giunta intermediati dalle banche che, come è noto a chiunque faccia impresa, hanno i loro tempi e soprattutto le loro regole, spesso imposte da un algoritmo, soprattutto se allo sportello non sanno chi sei.

L’altra sera, in tv, ho sentito più volte il viceministro allo Sviluppo economico, il grillino Stefano Buffagni, dire: «Presto daremo indicazioni su come fare». Sì, indicazioni. Per uno degli uomini del governo è sufficiente dare indicazioni. Altrove si decide, si trovano soluzioni, si prendono misure urgenti. Da noi, «presto» (comodo avverbio che evita di precisare una data), il governo ci farà sapere. Con il risultato che poi, per adeguarci alle «indicazioni», ci serviranno altri giorni e forse altre settimane, mentre nel frattempo, una circolare del ministero o dell’Agenzia delle entrate preciserà meglio.

Sì, lo confesso: al pari dei costruttori edili, dei fabbricanti di mobili e dei musicisti, anche io sono preoccupato, perché oltre le parole, che nei dibattiti televisivi vengono dispensate in grande abbondanza, non vedo altro. Servirebbero decisioni e misure conseguenti a esse, ma per ora non ci sono. La scuola è lasciata in un limbo, affidata a una ministra che sembra una turista in vacanza al ministero. I ragazzi sono chiusi in casa, confinati dentro un social o, come spiega l’inchiesta di Terry Marocco, sprofondati in una specie di depressione. Ma alla fine le sbarre di quella gabbietta con cui abbiamo rappresentato in copertina il lockdown le dobbiamo aprire. Lo dobbiamo fare per loro, i giovani, e per noi. A prescindere dai tanti, troppi errori, della politica.

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