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La Collezione Torlonia in cerca di una casa definitiva

La Collezione Torlonia in cerca di una casa definitiva

La più importante raccolta privata di statue ed elementi decorativi torna finalmente visitabile nella mostra Collezionare capolavori a Villa Caffarelli, ai Musei Capitolini di Roma. Un grande evento che però non chiarisce quale sarà la sede finale di questi tesori inestimabili.


Dopo 20 anni torno a scriverne su questo giornale. Sono cambiate molte cose nella Collezione Torlonia per la mostra (punto di partenza, certamente, di un più complesso progetto) dei marmi esposti, nell’allestimento di David Chipperfield, nella rinnovata sede di Villa Caffarelli ai Musei Capitolini. Un allestimento frigido, ospedaliero, ma utile a restituire il senso delle vaste operazioni chirurgiche che questa operazione, politica prima che critica, richiede.

In questo momento, tra i tre attori principali, lo Stato, il Comune di Roma e la Fondazione Torlonia, è quest’ultima ad avere il ruolo più rilevante, riscattando una storia recente, ambigua e opaca. Infatti per più di 40 anni anni la collezione di 620 opere, provenienti da raccolte romane formate tra il XV e XIX secolo e da scavi e acquisti fatti dai Torlonia nel corso dell’Ottocento, ovvero quella che è definita «la collezione delle collezioni», fu accatastata in magazzini e sottratta al pubblico godimento, in una prospettiva miope di speculazione commerciale, trasformando gli ambienti del museo, in un edificio di via della Lungara, in appartamenti di lusso.

Antonio Cederna, con Italia Nostra, denunciò lo scandalo che, da allora, nel 1976, non trovò una decorosa soluzione. Oggi essa sembra riassunta nella dichiarazione istituzionale: «La Fondazione Torlonia ringrazia le istituzioni che hanno partecipato a questo ambizioso progetto, il ministro Dario Franceschini, la maison Bvlgari per averlo sostenuto e i curatori professor Salvatore Settis e professor Carlo Gasparri che hanno incessantemente lavorato alla sua realizzazione».

Gli attori ci sono tutti, ma la soluzione definitiva non è chiara. Intendo che non possiamo non compiacerci di questa, pur parziale, esposizione di un patrimonio rimosso, ma storicamente considerato la più importante collezione di sculture antiche dopo i Musei Vaticani e i Musei Capitolini. Intanto sappiamo che dopo l’esposizione romana i marmi Torlonia saranno esposti al Louvre. Ancora una mostra. Ma è il presidente della Fondazione Torlonia, Alessandro Poma Murialdo, ad assicurarci quello che vogliamo sentire: «Un proficuo dialogo con le istituzioni, fatto di risultati raggiungibili per piccoli passi. Una evoluzione che porterà nei prossimi anni alla creazione di un nuovo Museo Torlonia aperto permanentemente al pubblico, a Roma».

La dichiarazione è precisa e solenne, ma è l’unico riferimento in tutto il catalogo (Electa) al futuro e anche al passato recente. Tant’è che una delle poche personalità del giornalismo d’inchiesta che possa essere accostata ad Antonio Cederna, Fabio Isman, denuncia il clima da «vispa Teresa», ovvero di reticenza, sulla questione dei marmi Torlonia, come un’operazione ancora clandestina, sotterranea, non chiarita. In un suo commento dopo la visita, Isman scrive: «La mostra è bellissima; fa vedere marmi finora conosciuti, da almeno tre generazioni tra cui la mia, soltanto in (poche) immagini; capolavori assoluti; mille storie dietro; mille scoperte dai restauri, bellissimi. Ma, quando ne sono uscito, mi sono ricordato di aver visto solo il 15% della celebratissima Collezione Torlonia. E di non aver udito nulla, nelle presentazione in streaming, sul suo passato recente. Anzi, il presidente della Fondazione ha parlato della tutela scrupolosa di quei beni assoluti, garantita dalla sua famiglia. E del museo chiuso di soppiatto per trarre, dalle 77 sale, 99 mini appartamenti di lusso? E la “tutela” assicurata da chi ha sottratto, per tanti e troppi decenni, quei beni al pubblico godimento? Soltanto un sopracciglio si è alzato, in una mossa di stupore; beh, almeno eravamo in due. Ovviamente, anche nella svelta guida, non si parla di questo recente passato: un po’ di amaro in bocca, a un cronista (che dovrebbe sempre raccontare i fatti), è lecito? Oppure, adesso che il 15% si rivede, “parce sepulto” o, per restare in tema con il periodo, “tabula rasa”? Sono interrogativi inquietanti, nonostante le diplomatiche, rassicuranti parole del presidente della Fondazione Torlonia. L’archeologo Luigi Malnati osserva: “Chi ha pagato i restauri? E i curatori? L’allestimento? La collezione resta privata”. Non abbiamo, infatti, nessuna informazione, oltre la collaborazione istituzionale per la mostra, sul destino della collezione. Un altro archeologo con malignità osserva: “Quando c’è di mezzo Settis si sorpassa tutta la burocrazia”».

È evidente che, dopo l’esposizione dei Musei Capitolini e del Louvre, occorrerà meditare sulla sede propizia per la grande collezione. All’epoca in cui ero sottosegretario ai Beni culturali, si iniziò la trattativa con il principe Alessandro Torlonia. Le strade erano due: consentire ai Torlonia di realizzare un museo in una porzione del vasto parco di Palazzo Albani, garantendosi l’apertura al pubblico della collezione in cambio di parcheggi ai piani sottostanti. Non entusiasmante. Un bilanciamento tra esigenze collettive e interessi privati. In una seconda fase, l’ex ministro Giuseppe Guarino, persona abile ed esperta, aveva ottenuto dal tetragono principe Torlonia la disponibilità a vendere allo Stato la collezione per 250 miliardi di lire, da ripartire in 50 miliardi all’anno per 5 anni. Nel passaggio all’euro la cifra non sarebbe stata così iperbolica: 25 milioni di euro all’anno per cinque anni.

Di tutto questo non si parla più: resta la rassicurante prospettiva, pur non definita nei tempi, del presidente della Fondazione.
È inutile cercare nel catalogo informazioni sul passato recente e sul futuro prossimo. Il volume Electa è un rigoroso strumento di studio con informazioni sulle opere esposte e sulla storia delle collezioni.

Sappiamo così che, dopo un primo scenografico allestimento nel palazzo in Piazza Venezia, secondo il progetto di Giuseppe Valadier, con volte dipinte dai maggiori artisti neoclassici, stucchi dorati e marmi preziosi, e, oltre alle sculture antiche, l’Ercole e Lica di Antonio Canova, il museo trovò la sua sede definitiva nel Palazzo di via Lungara verso il 1876, la data della prima edizione del catalogo a stampa della collezione, poi confluito nel monumentale volume di grande formato I monumenti del museo Torlonia di sculture antiche riprodotti con fototipie. Il grande volume, con le tavole fotografiche e il testo che l’accompagnava, non fu mai messo in vendita ma regalato a destinatari illustri, a biblioteche e università. Anche in questa pubblicazione si intende la grandezza di spirito di Giovanni Torlonia che pensò soprattutto di giovare agli studiosi.

Fatti questi rilievi esterni che riguardano il destino della collezione, il percorso delle opere esposte nel sobrio allestimento ci mette davanti, nella prima sala, a una vasta scelta dei ritratti a partire dall’esile Fanciulla da Vulci del primo secolo a.C., ai grandi vecchi: Eutidemo e il Vecchio d’Autricoli. Particolarmente rilevanti i due busti di Aquilia Severa del III secolo d.C., con il movimentato panneggio che evidenzia una mano sotto il velo, e di Elena Fausta della seconda metà del IV secolo, con una stilizzazione dell’acconciatura e dell’abito, di gusto quasi déco.

Di particolare importanza il rilievo attico, di scavo, del V secolo a.C., Tra le opere più notevoli, la replica solenne della Irene di Cefisodoto, capolavoro perduto del IV secolo a.C., elegantemente restituito in marmo pentelico, alla fine del I secolo a.C. Un’altra sezione ospita le sculture provenienti dallo studio di Bartolomeo Cavaceppi, notevoli perché legate al gusto di Johann Joachim Winckelmann. Si segnalano la grande tazza con le Fatiche di Ercole e la Cariatide, derivata dal modello per il portico di Eleusi, del I secolo a.C. Un’altra sezione viene dalla collezione di Vincenzo Giustiniani, venduta nel 1816 a Giovanni Torlonia. In essa le sculture di maggior gusto sono lo Scipione in basanite e porfido, interpretazione moderna di un busto antico degli inizi del XVII secolo, e l’Hestia Giustiniani con l’elegante peplo, replica di un originale bronzo del V secolo a.C.: severità ed eleganza distinguono anche la copia.

Particolarmente notevoli le due Isidi, in marmo bigio morato con integrazioni in marmo bianco, databili, nella loro sofisticata fattura, al III secolo d.C. Molto utile il confronto delle due Veneri accovacciate, di grande morbidezza di esecuzione, repliche di un originale del III secolo a.C., attribuito allo scultore Doidalsas. Una delle due, con lievi abrasioni della superficie, è miracolosamente intatta, e vibra nel modellato. L’altra ha la testa aggiunta, rigida, sicuramente ottocentesca, ma scambiata per opera di Gian Lorenzo Bernini. Più recentemente, Giulia Fusconi e Tomaso Montanari hanno proposto il nome di Pietro Bernini, non valutando la convenzionale rigidezza dell’esecuzione, piuttosto ottocentesca.

Altrettanto inverosimile è il riferimento a Gian Lorenzo per la testa di Caprone in riposo, di esecuzione mossa. Originale il rilievo funerario con scena di bottega di carni, di bella composizione, databile al II secolo d.C. Tra i pezzi più significativi esposti vi sono il sarcofago con le Fatiche d’Ercole, già in palazzo Savelli, con il coperchio con la coppia di defunti, di solenne e compiaciuta presenza. E il Sarcofago con i leoni, una grande cassa strigliata e decorata con protomi leonine in attitudine di caccia, sui fianchi; sul retro liscio, due teste di gorgone, schiacciate. Il modellato è morbido ed espressivo, la composizione elegantissima.
La felicità per la restituzione al mondo della Collezione Torlonia lascia spazio all’incertezza sulla sua destinazione definitiva.

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