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Giugno 1945, la Germania da fare a pezzi

Giugno 1945, la Germania da fare a pezzi

La caduta del nazismo, la fine di Adolf Hitler, la tragica capitolazione di Berlino con decine di migliaia di vittime. L’esercito tedesco – per cui si è appena deciso il riarmo – fu annientato. E gli Alleati «riordinarono» il Paese che aveva scatenato la guerra, dividendolo.

Le macerie di un Reich diviso in quattro

Le macerie di una Germania, stremata sotto il peso delle bombe che, negli ultimi otto mesi di guerra, non le avevano concesso tregua, vennero spartite per quattro. Inizialmente, gli accordi prevedevano che le spoglie del Reich dovevano diventare patrimonio soltanto di Unione Sovietica, Stati Uniti e Gran Bretagna ma, al momento di dare esecuzione al piano (5 giugno 1945), la Francia puntò i piedi.
Charles de Gaulle, presidente – pur «provvisorio» – dello Stato, rivendicò i meriti della sua gente che non si era piegata alla dittatura di Adolf Hitler e che, anzi, si era impegnata in una guerriglia di sabotaggio, capace di fiaccare il nemico. Difficile dargli torto.

La spartizione della Germania

A Parigi toccò il Baden-Württemberg con Palatinato e Renania. Gli inglesi presero i territori più prossimi alle loro coste: Sassonia e Schleswig-Holstein. Gli States si accontentarono della Baviera e dell’Assia. Tutto l’Est – dal Brandeburgo alla Turingia – fu appannaggio di Josif Stalin.
Anche la capitale Berlino – pur annegata in regioni totalmente controllate dell’Urss – venne affettata in quattro spicchi. I russi rivendicarono il possesso del settore orientale a cominciare dalla Unter den Linden, che era stata il teatro delle esibizioni naziste. All’ombra dei tigli di quel viale, ampio quanto un’autostrada moderna, avevano marciato i reparti delle camicie brune, battendo il passo dell’oca, dietro i colori neri e rosso fuoco delle bandiere uncinate.
Stalin, più che i luoghi fisici, volle impadronirsi dei simboli. Dove Hitler aveva mostrato i muscoli – lì – pretese di mostrarsi più forte.

Cancellare l’identità tedesca

Il «piano di riordino» della Germania si proponeva di cancellarne l’identità come nazione. La punizione riguardava l’intera popolazione, con i nazisti – ovviamente – in testa ma senza indulgenza per tutti gli altri cittadini, perché anche loro – con accondiscendenza o arrendevolezza – non avevano contrastato nemmeno blandamente il potere del Führer.
Nessuno poteva considerarsi esente da responsabilità, colpe, errori e peccati. Veniva negata l’esistenza di uno Stato: quei territori dovevano essere ridotti a spazi da disarmare, occupare militarmente e rifondare.

Il paradosso dell’oggi

A 80 anni di distanza, con un ribaltamento che – quasi per contrappasso – sembrerebbe un capriccio del tempo, l’attuale cancelliere Friedrich Merz vorrebbe intestarsi il comando di un esercito europeo. Non gode della maggioranza degli elettori tedeschi e, per la verità, a dispetto di alleanze «larghe» di partito, non sta troppo tranquillo nemmeno in Parlamento.
Ma, fuori da Berlino, con Emmanuel Macron (che ha perduto per strada il blocco sociale che l’ha portato all’Eliseo) e con Keir Starmer (che, secondo i sondaggisti, ha già fatto pentire chi l’aveva votato), progetta i contenuti di un continente con l’elmetto in testa.
La verità è che il sangue della storia asciuga in fretta, al punto da disperdere le «lezioni» capaci di insegnare al futuro come evitare gli errori del passato.

Le conferenze del destino

Quei mesi del 1945 portarono alla definizione di un progetto che aveva preso forma quando fu chiaro che le potenze dell’alleanza avrebbero avuto la meglio sui nazisti. Il Dopoguerra – e, su questo, si mostrarono tutti d’accordo – doveva mettere in ginocchio la Germania.
La prima definizione avvenne in occasione dell’incontro a Teheran (28 novembre – 1° dicembre 1943) con la conferma che venne nella conferenza di Yalta (4–11 febbraio 1945). In quei colloqui, il vero protagonista fu Stalin che, essendo l’unico a rappresentare un potere vero, più che da partner autorevole, si comportò da padrone.
Fu lui a guidare la discussione e a governarla come meglio gli convenne. Anche perché gli alleati mostrarono vistose fragilità. Il presidente degli Usa Franklin Delano Roosevelt era malato, si mosse con difficoltà e morì prima che il conflitto finisse. I trattati vennero sottoscritti dal successore Harry S. Truman, che non fu in grado di correggere nessuna delle decisioni delle quali, per altro, non aveva conoscenze dettagliate.
Churchill, invece, perse le elezioni e cedette la premiership al laburista Clement Richard Attlee, che aveva ancor meno interesse a temperare le invadenze di Mosca.

L’epilogo a Potsdam

All’ultimo incontro, a Potsdam (2 agosto 1945), si limitarono a ratificare ciò che era stato deciso e che, per iniziativa del solo Stalin, era anche già stato messo in pratica.
Del resto, come intervenire stando dall’altra parte dell’oceano? O alle prese con i sondaggi scoraggianti di una campagna elettorale complicata?
Nessuno fu in grado di governare gli ultimi giorni di guerra «calda» e, peggio ancora, i primi giorni di una «finta» pace.

La morte del Führer

Il 30 aprile 1945, Hitler – che aveva confidato nell’utilizzo di un’arma segreta e credeva di disporre ancora di milioni di soldati – preparò una pozione di veleno. Un sorso venne mescolato nella ciotola del suo cane Blondi e il resto fu diviso fra lui ed Eva Braun.
In analoghe circostanze morirono Joseph Goebbels, la moglie e i loro sei figli. Si suicidarono anche il generale Hans Adolf Krebs e una dozzina di altri notabili nazisti.
Con l’ultimo suo atto, Hitler indicò nell’ammiraglio Karl Dönitz il suo successore. Il documento aveva valore poco meno che formale, ma i tedeschi resistettero per altri cinque giorni. Anche Berlino non si arrese: ragazzi armati di «panzerfaust» e sessantenni lanciarono tutto contro il nemico.

La resa in due tempi

Non si è mai saputo chi fu l’ultima vittima di quell’estremo massacro che inghiottì un mezzo milione di vite. Ma si conosce il nome dell’ultimo decorato con la croce di ferro: Eugène Vaulot, francese nelle SS.
Nella notte tra 1° e 2 maggio, il generale Helmuth Weidling ordinò la resa.
La capitolazione della Germania avvenne in due tempi:

  1. A Reims, con la firma del generale Alfred Jodl. Mosca contestò l’atto: secondo Stalin, la resa doveva avvenire a Berlino.
  2. Nella cancelleria del Reich, con la firma del generale Wilhelm Keitel per la Germania, e di Georgij Zukov per l’Urss. Il francese Jean-Marie de Lattre de Tassigny firmò separatamente.
    Poiché si trattava di una resa senza condizioni, non ci fu nulla da negoziare, ma il documento passò più volte da una lingua all’altra per essere ritenuto soddisfacente.
    La firma, prevista per l’8 maggio, si trascinò fino all’alba del 9. Per convenzione, fu datata all’inizio della riunione.

Le ultime vittime e l’inizio della Guerra Fredda

La comunicazione della resa fu lenta e difficile da accettare. I combattimenti proseguirono a macchia di leopardo per ore, poi giorni. I morti si sommavano a montagne di cadaveri già esistenti.
La guerra «calda» poteva ora diventare «fredda». E lo sarebbe rimasta, alimentando decenni di tensione internazionale fino al crollo dell’Unione Sovietica e alla riunificazione della Germania.

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