Le immagini esposte a Ferrara di 13 straordinarie autrici – da Diane Arbus a Francesca Woodman, da Letizia Battaglia a Carla Cerati – testimoniano come uno scatto diventi opera assoluta. La capacità di raccontare le storie del mondo prescinde dalla identità estetica di genere.
Dobbiamo all’impegno e alla determinazione di Liliana Zagagnoni, e al Comitato biennale donna di Ferrara, la bella mostra Attraversare l’immagine. Donne e fotografia tra gli anni ’50 e gli anni ’80, allestita negli spazi aulici della Palazzina di Marfisa d’Este per la prima volta alla prova (riuscita) del dialogo tra passato e presente.
La curatrice, Angela Madesani, ha fatto una scelta di grande rigore, smentendo il principio stesso di una identità estetica di genere. La sensibilità femminile non si tradisce, non identifica un carattere dell’immagine sulla base di un accidente come l’essere donna. La fotografia cancella manualità e femminilità.
Nella fotografia vediamo un pensiero, un’idea, l’intelligenza di una persona, il suo occhio, il suo punto di vista, non il sesso; e, benché l’occasione lo affermi, non vedremo mai una mostra sulla fotografia delle donne con un risentimento, una rilevanza di rivendicazioni, come invece in una mostra sulla pittura e sulla scultura, nel genere dell’Arte delle donne che io presentai nel 2007 a Palazzo Reale di Milano, molti anni dopo la pionieristica La metà dell’avanguardia di Lea Vergine.
Certamente un manifesto della fotografia femminile sarebbe improbabile se non impossibile, anche soltanto per provocazione, ma sarebbe prontamente smentito dalle stesse fotografie. In ogni caso, il prestigio delle opere scelte o invitate rende la mostra di Ferrara imperdibile e, per intanto, ci fa riflettere sulla natura incorporea, anche negli esiti, della fotografia. Insisto, per l’evidenza dell’assunto e per la eloquenza delle immagini, cui non sarebbe possibile attribuire una genetica femminile, nonostante che proprio la prima delle fotografe proposte, Diane Arbus, sembri smentire il mio assunto, forse perché conosciamo l’identità dell’autrice, molto forte, dolorante e caratterizzata.
Ma non posso negare che, con i nervi a fior di pelle, quella inquietante coppia che abbiamo di fronte, in un prezioso e meditato scatto, trasmetta o esprima una nevrosi «femminile». Ma è una sublimazione , e forse il contagio della leggenda e del mito di questa giovane donna disturbata. Il dolore di vivere della Arbus si fa condizione universale. E lo ritroveremo in Francesca Woodman, la cui breve vita finisce con il suicidio, dopo un itinerario intorno al proprio corpo nel chiuso di una stanza.
La Woodman potrebbe esser figlia della Arbus, e ne accentua l’ansia delle cose, focalizzando particolari cui non è consentito di essere insignificanti. Prima di sporgersi da un palazzo per precipitare nel vuoto, scrive: «…vorrei piuttosto morire giovane, preservando cio che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate».
Non è certo delicatezza che ispira il potente neorealismo di Chiara Samugheo alla prova dei riti religiosi meridionali, come si vede nella serie delle invasate viste a Galatina, Puglia, nel 1954. Una documentazione etnografica, potente e rigorosa come tutte le scene di vita meridionale, tra povertà e pathos. Notevole l’ispirazione di Lori Sammartino, morta giovane per una malattia fulminante e tormentata dall’ansia di raccontare l’umanità semplice agli inizi della società del benessere dei primi anni Sessanta, con uno spirito pasoliniano di più intatto candore. Di lei Ennio Flaiano scrive: «Lori Sammartino scrive un taccuino d’appunti con la sua macchina fotografica… Cogliere quell’attimo di transito è il segreto. Ma soltanto un’affettuosa ironia può soccorrere l’artista nel fissare questi ricordi in fondo disperati – soltanto un vero amore per il prossimo di tutti i giorni».
Non vediamo in mostra la serie di fotografie sui pazienti psicopatologici del marito Adolfo Petiziol, psichiatra che, come il grande Mario Tobino, ritiene che non ci siano alternative al manicomio per i malati di mente, posizione conservatrice rispetto a quella rivoluzionaria di Franco Basaglia che, inaugurando «la psichiatria democratica», rimuove catene e lucchetti dai reparti dei manicomi e chiede a un’altra grande fotografa, Carla Cerati, di documentare le condizioni esistenziali dei malati prigionieri, umiliati e disperati prima che matti. Ne esce un campionario di umanità dolente, turbata, non disturbata.
Nella serie «morire di classe» ritorna la stessa inquietudine della Stanza delle agitate nell’Ospizio di San Bonifacio di Telemaco Signorini, capolavoro «fotografico» del 1865. Non meno significativa la lunga esperienza di fotografa militante, quasi sociologa, di Letizia Battaglia, carica di contenuti e di emozioni letterarie pure, applicate alla società palermitana, all’aristocrazia decaduta e alla mafia, entro le quali si salva deterministicamente il popolo, nella sua incontaminata purezza, specialmente infantile. Indimenticabili La bambina e il pane, quartiere La Kalsa e Il lettone.
Fin qui le fotografe hanno intercettato una variegata antropologia, prima sentimento che documento. Un’altra notevole sezione della mostra è dedicata al fotoreportage, con le testimonianze di Françoise Demulder, Paola Agosti e Leena Saraste, in Medio Oriente, Asia e Africa. Ecco la indimenticabile Beirut della Demulder, con la vibrante serata di danze orientali all’Hotel Commodore che, nel 1983, ripete l’emozione dello spogliarello di Aïché Nana, la ballerina turca (o forse libanese, appunto) protagonista della Dolce vita al Rugantino a Trastevere, nelle fotografie di Tazio Secchiaroli.
Storia e costume, nonostante il soggetto marginale. Imprescindibili, nella memoria storica, le immagini della Demulder dalla Cambogia con la epopea dei bambini-soldato sulla linea del fronte dei Khmer rossi. Notevole, poi, il racconto della vita dei neri negli accampamenti delle favelas nella ricca Cape Town dei bianchi nelle foto di Paola Agosti, che documenta con indulgenza anche i bianchi a Johannesburg.
Indimenticabile, ancora a Beirut, nell’ospedale della Mezzaluna rossa al Campo di Sabra, il ragazzo che contempla assorto la sua gamba di legno, dopo un infortunio bellico, di Leena Saraste, che anche al cimitero dei martiri della capitale libanese racconta una popolazione festosa e allegra. Fotografie formidabili. Più formalista, fino ad attingere un linguaggio astratto in dialogo con il fratello pittore Eugenio, appare la rigorosa Lisetta Carmi, genovese, quasi centenaria, con punti di vista acrobatici. La Carmi interrompe la sua ricerca nel 1984, dopo un libro fotografico memorabile sui «travestiti» nell’ex ghetto ebraico di Genova, e si ritira in meditazione in Salento, nella incantata Cisternino, la sua Himalaya.
La classe operaia, il mondo degli scioperi e degli operai in fabbrica, con entusiastica determinazione e il sentimento attivo, positivo della sconfitta, è il tema forte di Giovanna Borgese, militante di un sogno, in dialogo con Mario Dondero, fotografo con il quale si è misurata per dare ponderatezza alle immagini, oltre la cronaca, in ordine a una visione etica della vita sociale.
La mostra si chiude con due portentose fotografe, le cui diverse visioni afferiscono rispettivamente alla filosofia e alla poesia. Filosofa, la tedesca Petra Wunderlich fissa lo sguardo su dettagli di architetture religiose, con una misura geometrica e ossessiva che ostacola qualunque fuga o prospettiva, stabilendo un limite invalicabile: una prigione dello sguardo, in una singolare concordanza con i tagli/dettagli di Domenico Gnoli.
Infine, pura poesia, il viaggio di Mari Mahr, ebrea ungherese nata a Santiago del Cile in diaspora, perduta nella vita di Lilya Brik, amore fatale di Vladimir Mayakovsky. Lilya è un’eroina letteraria di lunga vita, morta suicida quasi novantenne nel 1978. La Mahr intende far rivivere, attraverso particolari di abiti e di oggetti, in una dimensione crepuscolare, ma non feticistica, le emozioni e i sentimenti di un amore che nella letteratura non muore.
Le sue immagini sono l’equivalente, il correlativo oggettivo degli Xenia di Eugenio Montale: «…Avevamo studiato per l’aldilà/ un fischio, un segno di riconoscimento./ Mi provo a modularlo nella speranza / che tutti siamo già morti senza saperlo…».
