Con Philippe Daverio, Vittorio Sgarbi ha condiviso la passione per il proprio mestiere e la capacità di divulgare, divertire e divertirsi. Che così descrive il gallerista scomparso il 2 settembre 2020: «Ha portato luce in un mondo chiuso, com’è quello della critica».
L’arte esiste se scompiglia. Intanto devo dire che lo conoscevo da più di 40 anni, quasi 50, perché Philippe Daverio ha avuto molte facce. È apparso improvvisamente come uno straordinario, originale, molto credibile gallerista d’arte a Milano, con ottime mostre in una stagione che lo ha identificato in un mercante di nuova generazione rispetto ai suoi colleghi galleristi molto più ideologici, molto meno divertenti, molto meno originali.
Poi dev’essere capitato qualcosa che è inutile andare ad approfondire, per cui ha chiuso la galleria dove lavorava con un altro importante studioso, Paolo Baldacci, uno specialista di Giorgio De Chirico, tra l’altro da anni tormentato da un tumore che ha superato; però è una strana coincidenza. I due poi si sono separati e abbiamo ritrovato Daverio politico, tra l’altro così lungimirante da essere stato il primo ad avere convissuto con la Lega: era assessore con Marco Formentini. Quindi a capire quello che io ho capito come e meglio di lui, per certi versi: che c’è più spazio a destra che a sinistra.
Tutti gli intellettuali stanno a sinistra, per cui è chiaro che la concorrenza è più forte. Perciò lui ha fatto l’ottimo, lo straordinario assessore con la parte, per così dire, sbagliata, al tempo in cui la Lega non era «potabile», e Formentini una persona discussa però certamente coraggiosa. Improvvisamente quella stagione è finita ed è iniziata una stagione universitaria per Daverio: ha avuto una cattedra in Sicilia, rapporti meravigliosi con quella regione conclusi con forse l’unico momento drammatico della sua vita.
Prima di questa fase strana per il suo temperamento, io divenni nel 2008 sindaco di Salemi, lo chiamai come bibliotecario e lui venne, perché se c’era un elemento che caratterizzava il rapporto con me era il divertimento, il gioco, il paradosso. Abbiamo fatto diventare Salemi – portando anche Oliviero Toscani, Bernardo Tortorici, Peter Glidewell – una piccola Milano, con tutto il mondo che veniva a trovarci, e lui che veniva insieme a Fulvio Pierangelini, lo chef. Insomma, era uno dei personaggi di questo teatro.
Non siamo mai stati lontani. Ci siamo visti tutta la vita. Eravamo come fratelli, nel senso che tutto il mondo della critica d’arte ci guardava con invidia e antagonismo. Invidia per la popolarità televisiva, che gli altri non avevano, e poi anche per il temperamento. Io sono molto rissoso, però anch’io in fondo mi diverto. La componente giocosa, ludica, l’essere appunto come in un teatro, caratterizzava i nostri incontri e le nostre conferenze, le situazioni in cui ci siamo sempre trovati. C’era questo elemento di gioco, era come trovarsi senza paura in un mondo di lupi. Siamo sempre stati insieme nelle posizioni sull’arte e, guarda caso, osteggiati da piccoli mafiosi che hanno fatto il loro potere con il mercato dell’arte.
Anch’io, tutti noi abbiamo avuto rapporti con il mercato dell’arte, non c’è nulla di male, ma non abbiamo fatto squadre di cui eravamo come i rappresentanti legali. Lui ha parlato per la storia, quindi ha parlato per l’umanità, quindi ha parlato per tutti. E oggi la quantità di rimpianto è per uno che, con i libri e la televisione, ha cercato di raccontare la felicità dell’arte. Ha cercato di dire qualcosa che dimostrasse che c’era un’aria aperta, un’aria libera, nell’arte, e quest’aria libera corrisponde all’idea di un paradiso dell’infanzia – perché l’arte è questo – e a un inferno dell’intelligenza. Per cui ci possono essere artisti come Raffaello e artisti come Caravaggio. L’intelligenza crea turbamenti.
Lui, quando raccontava, sembrava un attore comico, comunque pittoresco, alla Alfred Hitchcock, e raccontava l’arte per essere capito, perché gli altri potessero condividere quello che lui diceva. Da questo punto di vista è stato un grande narratore; l’Isaac Singer dell’arte occidentale, uno che descrive i personaggi come se li avesse davanti. Quest’azione di servizio non è divulgativa, ma un tentativo, riuscito, di dimostrare che l’arte è vita, che l’arte ci appartiene, che non è una cosa per pochi.
Altri critici non hanno fatto politica, Maurizio Calvesi, Achille Bonito Oliva, Germano Celant. Aver fatto politica con la Lega non ha compromesso né l’autorità né l’indipendenza di Daverio. Ha occupato uno spazio che gli altri hanno lasciato. Questo è un modo per essere utili. Tutti quelli che apparentemente non fanno politica, sono in realtà estremamente ideologici, legati a una visione totalmente politica, come il pensiero unico della parte politicamente corretta. Lui era politicamente scorretto, e questa era la sua libertà. Soltanto chi è politicamente scorretto è libero. Gli altri hanno bisogno di corrispondere a necessità di buon senso, di principi rispettosi, di gerarchie. Lui no.
Io e lui eravamo sempre sulla frontiera, per così dire, popolare del racconto dell’arte e della difesa di valori stabili. Per cui potremmo immaginare una storia dell’arte a quattro mani pur non avendo mai scritto libri insieme. Ci siamo sempre trovati e abbiamo cercato di allargare la platea dell’arte attraverso la televisione e libri nazional-popolari, quindi. Nessuna persona semplice può leggere con profitto Bonito Oliva o Celant, scomparso da poco, mentre tutti possono leggere e trarre beneficio dalle pagine di Philippe Daverio, così come dalle mie, per certi versi. Dunque chiarezza del testo, comunicazione televisiva, racconto… insomma, riuscire a fare innamorare dell’arte. Ecco, Daverio aveva passione per l’arte e comunicava amore per l’arte.
Sostanzialmente, la sua presenza è stata molto precisa nella situazione del secolo in cui siamo; abbiamo chiuso il secolo che era stato aperto da Adolfo Venturi con la sua grande Storia dell’arte, facendo una storia dell’arte per l’umanità vera. Da questo punto di vista Daverio è stato uno storico dell’arte fondamentale e popolare. E ha, in qualche modo, rappresentato un collegamento fra l’arte e il popolo. È stato una figura libera e capace di essere festosamente, pittorescamente – come ha fatto soprattutto in televisione – in rapporto con quelli che ascoltano l’arte.
La critica d’arte normalmente ha linguaggi indecifrabili, incomprensibili, lontani; lui invece ha avuto il ruolo di grande narratore, e ha portato a compimento l’impresa di portare l’arte al popolo. Questo è sicuramente il suo tratto più riconoscibile. Quindi, diventando poi un personaggio, con le caratteristiche dei suoi abiti e dei suoi comportamenti, ha come recitato l’arte, portandola in un teatro per tutti. Con lui era come vedere lo spettacolo dell’arte. Ha portato luce in mondo estremamente chiuso, e questo ci ha resi simili. Più delle cose in comune, avevamo i nemici in comune: tutti i nemici miei erano nemici suoi. Ora sono solo.
