Riconosciamo che la cucina italiana è la migliore. Ben più varia di quelle etniche ora tanto di moda. È il nostro patrimonio da valorizzare.
Stiamo dimenticando come si cucinano i tajarin. Però non perdiamo l’occasione di rimpinzarci di nachos e tacos. Il fegato alla veneziana fa storcere il naso a molti, però apprezziamo i sigara borek (involtini alla turca). Dimentichiamo la pappa al pomodoro, in compenso impazziamo per il pollo tikka masala all’indiana. Lo stracotto d’asino non lo mangia più nessuno, ma se lo chiamate tajine e dite che appartiene alla tradizione marocchina diventa subito chic. La mostarda di Cremona? Out, a meno di non farla passare per chutney indiano. La cassoeula? Piatto superato. Volete mettere la choucroute alsaziana? Suona decisamente meglio, anche se è all’incirca la stessa cosa. Niente da fare, abbiamo la cucina migliore del mondo, però rischiamo di soffocarla. Non ci rendiamo conto di quanto siano buoni gli agnolotti al plin. Pensate che c’è chi pensa di sostituirli con un piatto di gyoza. Effetto Japan.
Ho pensato a questo quando il nume tutelare del Grillo mi ha suggerito di parlare di cibo. «Si avvicina il Natale, con il tradizionale “pancia mia fatti capanna”», mi ha detto. E mi ha sottoposto un ritaglio di giornale: il governo italiano ha chiesto che la cucina italiana diventi patrimonio dell’Unesco. Era ora, ho pensato. Sono già patrimonio dell’Unesco il porridge del Malawi, lo street food di Singapore, la zuppa di cavoli e ravanelli della Corea, la birra belga, la focaccia armena, l’acquavite serba. Con tutto il rispetto per questi prelibatissimi piatti: perché la cucina italiana no? Si dirà: non si può considerare patrimonio dell’Unesco un’intera cucina. E invece no: infatti hanno già ottenuto il riconoscimento la cucina messicana, quella francese, quella giapponese e quella coreana. Quella italiana può essere da meno?
Ovviamente no. Noi abbiamo la più grande tradizione gastronomica del mondo, da tutti i continenti vengono qui per degustare i nostri cibi e i nostri vini. In ogni angolo della Penisola ci sono piatti tipici, dal bollito misto col bagnet piemontese alla pasta alla norma siciliana, dalla cuccia calabrese al frico friulano. Ci sono più tipi di viti in Italia che in tutto il resto del pianeta. Abbiamo varietà, qualità, capacità. E allora perché ci facciamo bagnare il naso dalla cucina messicana, con tutto il rispetto per la tortilla enchilada? O da quella coreana, con tutto il rispetto per i pancakes alla cannella? Per questo mi è venuto in mente ciò che denunciavo alcuni anni fa, parlando scherzosamente di «cous cous clan», la lobby vincente del cibo straniero. Da allora non abbiamo fatto che peggiorare. E infatti oggi si è compiuto il sorpasso: secondo l’ultima indagine Nielsen solo il 48 per cento degli italiani, dunque meno della metà, preferisce il cibo italiano a quello straniero. Il 17 per cento sceglie solo cibo straniero, gli altri alternano fra i due. Il 24 per cento degli italiani va in un ristorante etnico più di una volta alla settimana, il 75 per cento compra cibo etnico da portare a casa. Alla faccia dei tajarin.
Ovviamente non c’è niente di male nel mangiare sushi o tacos. Quello che è male è l’incapacità di difendere il nostro tesoro gastronomico. Non so quanto serva, a tal fine, diventare patrimonio dell’Unesco (in genere, poco). Ma è un chiaro segnale della scarsa attitudine che abbiamo a proteggere e valorizzare il nostro cibo. Scarsa attitudine che si è vista anche negli ultimi tempi con buona parte del mondo intellettuale e dei giornali schierati contro le norme del governo per fermare la carne sintetica (meglio: la carne coltivata). Possibile che nessuno si renda conto che la sostituzione del cibo genuino e autentico con tutto ciò che può essere riprodotto in laboratorio o con coltivazioni su larga scala (vedi grilli e locuste) è un attacco al nostro patrimonio? Il bue grasso di Carrù ce l’abbiamo solo noi. La carne sintetica (meglio: coltivata) la possono produrre tutti. Come i grilli.
Negli ultimi tempi abbiamo permesso che interi nostri patrimoni fossero spazzati via: abbiamo distrutto uliveti mentre importavamo olive dalla Tunisia, abbiamo messo in ginocchio i produttori di Pachino mentre importavamo pomodori dal Marocco, e così con pere, fragole, riso, arance, per non dire del pesce: otto pesci su dieci sulle nostre tavole arrivano dall’estero, mentre i nostri pescherecci muoiono fra lacci e lacciuoli di leggi sempre più assurde. Perciò sarebbe bene che pensassimo un po’ al cibo italiano: oltre a divorarlo nel pranzo di Natale, andrebbe anche difeso ogni giorno. E difenderlo tocca un po’ a tutti noi. Per esempio nel 2018, quando scrissi del «cous cous clan», chiesi ai miei quattro figli di andare dalla nonna, che allora aveva 81 anni, per imparare come fa gli agnolotti, il piatto speciale di ogni nostro 25 dicembre, in modo che la tradizione non andasse perduta. Ora la nonna ha 86 anni. E gli agnolotti di Natale, per fortuna, continua a farli lei, a mano. Ma secondo voi i miei figli hanno imparato? Temo che qualcuno di loro prima o poi mi proponga un Natale con i gyoza…
