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Fare figli per costruire futuro

Fare  figli  per  costruire  futuro

L’editoriale del direttore

Il calo demografico è qualche cosa di complesso che dovrebbe coinvolgerci tutti, in quanto la denatalità, oltre a ridurre i consumi, e dunque preoccupare le aziende, riduce anche la nostra identità e le nostre prospettive.


La scorsa settimana ho incontrato l’amministratore delegato di una grossa azienda dell’energia. Pensavo di parlare di prezzo del gas, di quotazioni del petrolio e di alternative ai combustibili fossili. Invece mi sono trovato a discutere di denatalità. In cima ai problemi da affrontare, il manager ha collocato la questione demografica. Prima della transizione energetica e delle scelte economiche che il mondo deve fare per sorreggere il passaggio alle fonti rinnovabili, secondo lui viene la questione demografica. Dire che sono rimasto sorpreso è dir poco. Difficile infatti, trovare un manager che guardi oltre il perimetro del proprio business e si occupi di questioni che qualcuno definirebbe sociologiche. Eppure, l’alto dirigente ha dimostrato una sensibilità al problema non comune, spiegandomi anche quanto la sua società stia facendo per agevolare coloro che hanno figli o ne intendano avere, con orari flessibili, incentivi, eccetera. A un certo punto mi ha persino confessato di volerne fare una campagna, non di comunicazione ma di coinvolgimento di altre aziende, «per poter fare qualche cosa di concreto». Sono uscito dall’incontro pensando di avere a che fare con un visionario, nel senso positivo del termine.

Pochi giorni dopo, la direttrice marketing di un’azienda specializzata in articoli per la prima infanzia è venuta a trovarmi per parlarmi di un’iniziativa che punta a coinvolgere clienti e coppie di genitori di lungo corso per aiutare chi invece è alle prime armi con bimbi e pappe. Il tema, anche in questo caso, è il calo demografico. Certo, producendo tutine e accessori per neonati, è normale che un’azienda si preoccupi della denatalità. È un po’ come una fabbrica di computer che vede piano piano spegnersi il proprio business perché il pc è sostituito dai tablet o dagli smartphone. Ma un bambino non è un notebook e la faccenda è un po’ più complessa. Se calano le vendite di un portatile, puoi riconvertire la produzione e metterti a fare telefoni o altri congegni elettronici. Ma se spariscono i neonati, non puoi fabbricare qualche cosa d’altro per loro.

Perché vi racconto questi due fatti, apparentemente secondari e separati? Perché condivido le preoccupazioni dell’amministratore delegato e della direttrice marketing. Non si tratta solo di una cinica questione di business: meno figli, meno clienti futuri a cui piazzare una bolletta o vendere un completino. No, il calo demografico è qualche cosa di più complesso che dovrebbe coinvolgerci tutti, in quanto la denatalità, oltre a ridurre i consumi, e dunque preoccupare le aziende, riduce anche la nostra identità e il nostro futuro. Meno nati significano minori possibilità di tramandare ai figli la nostra cultura, ma anche meno possibilità negli anni a venire di ricevere assistenza e finanziare i servizi, a cominciare da quelli previdenziali.

So che per molti questo significa che dobbiamo spalancare le porte all’immigrazione perché, se le nascite non ci sono, resta il problema di come far funzionare il Paese. Ma come ha spiegato il demografo Giuseppe Volpi (ne abbiamo parlato nel numero 19 di Panorama), il calo delle nascite sarà difficilmente compensato dagli stranieri, in quanto anche le coppie che arrivano dall’estero, una volta giunte in Italia paiono adeguarsi ai nostri ritmi di vita, facendo meno bambini di quanto ci si immagina. Secondo Volpi, l’apporto alle nascite in Italia da parte di stranieri che hanno deciso di trasferirsi stabilmente nel nostro Paese è largamente sopravvalutato. Perché è vero che oggi i figli di persone extracomunitarie rappresentano il 22 per cento dei nuovi nati, ma in valori assoluti anche le nascite da genitori stranieri stanno scendendo da anni.

Dunque, la soluzione del calo demografico non può essere affidata alla popolazione extracomunitaria, perché in prospettiva gli stranieri non basteranno a frenare una tendenza che rischia di dimezzare o quasi gli abitanti dell’Italia entro la fine del secolo. Per Volpi restano 10, forse 15 anni per evitare quello che definisce un suicidio. Dunque, i discorsi dell’amministratore delegato e della direttrice marketing mi hanno colpito e mi hanno fatto sperare. Qualcuno, oltre ai demografi, comincia a porsi il problema e a pensare che, se vogliono evitare di sparire, gli italiani devono fare qualche cosa, cominciando dall’educazione dei figli (crescono senza avere alcuna voglia di farsi una famiglia con bimbi, preferendo divertirsi) per finire alla piena occupazione. Dare lavoro ai giovani quando sono davvero giovani, affinché possano fare programmi per il futuro che comprendano i figli – dice Volpi – è la prima cosa da fare, insieme a un piano case che preveda mutui agevolati e affitti popolari. Per quanto mi riguarda, sottoscrivo e spero che sottoscrivano tanti amministratori delegati e altrettanti direttori marketing.

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