L’inviato speciale statunitense per il clima, John Kerry, si è recato a Pechino, per incontrare il suo omologo cinese Xie Zhenhua. Questo viaggio avviene non molto tempo dopo la visita effettuata nella Repubblica popolare dal segretario al Tesoro americano, Janet Yellen: una visita in cui quest’ultima aveva già auspicato un rinnovamento della collaborazione tra Washington e Pechino sul fronte dell’ambientalismo.
Ricordiamo d’altronde che Kerry e la Yellen rappresentano gli esponenti più inclini alla distensione con il Dragone all’interno dell’amministrazione Biden. La Yellen si è espressa contro il decoupling e a favore di una riduzione dei dazi comminati da Donald Trump alla Repubblica popolare, mentre Kerry è noto per auspicare da sempre un disgelo con Pechino in nome della cooperazione climatica. Va sottolineato che non tutti nell’amministrazione Biden condividono questa linea soft, a partire dal consiglio per la sicurezza nazionale, che tendenzialmente invoca un approccio più severo nei confronti del Dragone sia sul rispetto dei diritti umani sia sulla competizione nel comparto dell’alta tecnologia. Il vero problema è che, a fronte di queste divisioni interne, la debole leadership di Joe Biden ha sempre faticato a trovare una sintesi efficace: una situazione che ha spesso portato l’attuale Casa Bianca a tenere un atteggiamento ondivago e contraddittorio rispetto al dossier cinese. Va da sé che questa condotta ha finito con l’azzoppare significativamente la capacità di deterrenza di Washington nei confronti del Dragone. Del resto, queste contraddizioni rischiano di acuirsi.
Al di là delle divisioni in seno alla sua stessa amministrazione, il presidente americano ha anche un problema elettorale. La sua base è infatti spaccata sulla questione cinese. Se i colletti blu della Rust Belt auspicano una linea dura sul commercio, i grandi mondi economici di Wall Street e Silicon Valley chiedono un rasserenamento nei rapporti con Pechino: mondi che, ricordiamolo, in larga misura hanno finanziato il Partito democratico americano alle elezioni del 2020. Non va inoltre trascurato che alcune delle politiche green di Biden risultano indigeste a certi settori e gruppi che lo hanno votato: il sindacato dei costruttori di automobili, per esempio, è letteralmente sul piede di guerra per la decisione del presidente americano di puntare sui veicoli elettrici. Fermo infine restando che la cooperazione con la Cina sull’ambiente costituisce di per sé un rischio: al di là della scarsa affidabilità del Partito comunista cinese, Pechino si è mostrata restia, negli ultimissimi anni, ad assumere degli impegni concreti sulla questione climatica.
Tra l’altro, l’approccio soft con la Cina ha portato Kerry a finire nel mirino dei deputati repubblicani, che gli contestano una politica troppo autonoma sul fronte cinese. Non solo. Costoro lo hanno anche accusato di aver subordinato il tema del rispetto dei diritti umani alla distensione in salsa climatica. Complessivamente si tratta di un notevole rischio elettorale per Biden. Man mano che le presidenziali del 2024 si avvicinano, i suoi avversari potrebbero infatti avere buon gioco nel tacciarlo di troppa arrendevolezza nei confronti di Pechino. Insomma, sia per gli Usa sia per lo stesso Biden la visita di Kerry in Cina è tutt’altro che una buona notizia.
