Il nome di Francesca Bellettini – che questa settimana campeggia nelle pagine economiche dei principali quotidiani – non dirà molto alla stragrande maggioranza degli italiani i quali, molto probabilmente, scorreranno oltre con il pollice opponibile.
D’altra parte la fama non è necessariamente connessa al potere.
Oggigiorno si ritiene che abbia successo chi riesca a imporre la propria immagine attraverso i media, qualunque cosa faccia, come i Tik-Toker che fanno smorfie o parlano con le loro capre.
E allora come si fa a spiegare chi sia Francesca Bellettini agli italiani che guardano solo le foto dei quotidiani e si perdono nella amenità dei loro profili social?
Semplicemente – si fa per dire – è la nuova CEO di uno dei gruppi del lusso più grandi al mondo, Kering, che detiene sotto il proprio cappello marchi pazzeschi come Gucci, Yves Saint Laurent, Balenciaga, Ulysse Nardin, Girrard Peregaux, Richard-Ginori, Pomellato, e molti altri.
Francesca Bellettini ha disintegrato il mitologico tetto di cristallo che separa gli uomini dall’altra metà del cielo, quella da sempre relegata in una condizione sussidiaria, biblicamente condannata all’obbedienza al potere maschile, fuori e dentro la famiglia.
Ma per una Francesca Bellettini che ‘ce l’ha fatta’, l’Italia continua ad arrancare sul piano della parificazione tra i sessi: se si guardano infatti i dati del Global Gender Gap Report 2022 del World Economic Forum, si vede come il nostro Paese sia drammaticamente nelle retrovie sul fronte della partecipazione alla vita politica (Premier a parte) e del mercato del lavoro, surclassata da moltissimi altri paesi, tra cui – udite udite – il Kazakistan.
Questo vuol dire che c’è ancora moltissima strada da fare e l’ottimismo si infrange contro i duri dati statistici che, cinicamente, ci riconducono ad una realtà diversa da quella auspicata.
Non siamo ancora alla parità e lo si capisce anche leggendo la cronaca quotidiana che sintetizza sentenze piuttosto criticabili, se non altro perché derivano da un’interpretazione suggestiva e psicologicamente orientata del giudice che l’ha emessa.
E proprio nel Tribunale di Roma, per fare un ultimo esempio, una giudice dopo aver assolto un bidello dall’accusa di aver palpeggiato una studentessa “in tono scherzoso per meno di 10 secondi“ (come se ci fosse un timer a misurare la rilevanza di una palpata e della conseguente eccitazione sessuale), ci è ricascata con un dirigente di un museo capitolino, imputato di molestie sessuali da parte di una dipendente.
Nella sentenza si legge che la parte lesa “probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente“.
Insomma la vittima, secondo il giudice, era troppo complessata, e si è inventata tutto.
Ragionando al contrario, se la vittima avesse avuto il fisico da modella, allora il reato si sarebbe ben potuto configurare?
Mi chiedo, a questo punto, se non sia arrivato il momento di applicare l’intelligenza artificiale ( AI) anche nelle aule di giustizia di modo che l’applicazione del coefficiente di simpatia o antipatia non segni in modo indelebile la vita dei cittadini che cadono nella rete delle ingiustizie processuali.
Forse così si potrebbe arrivare anche a scenari di Predictivy Tecnology o Giustizia Predittiva in grado di prevedere le decisioni giurisdizionali applicando degli algoritmi.
Per ora è ancora fantascienza ma anche in Italia sono in corso tentativi per arrivare a limitare “l’errore umano” anche attraverso la tecnologia di legal analytics che potrebbe servire ai giudici per elaborare sentenze sempre più rispettose della giurisprudenza più consolidata.
