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Sudafrica: dal sogno alla cenere

Sudafrica: dal sogno alla cenere

Almeno 300 morti, decine di migliaia di attività economiche distrutte, devastazioni pari a 20 miliardi di euro. Il Paese su cui l’intero continente puntava come esempio di riscatto è nel caos, con durissimi scontri politici, la corruzione sempre più diffusa
e la pandemia che non si riesce ad arginare. Il padre della patria Nelson Mandela riconoscerebbe a stento la «Nazione arcobaleno» che immaginava.


I copertoni in fiamme sulle autostrade bloccate per giorni. I centri commerciali bruciati e poi saccheggiati fino all’ultima ala di pollo. I bancomat distrutti a sprangate e smontati da nugoli di ragazzini pezzo a pezzo per rivendere i metalli in cambio di qualche rand, una moneta che vale sempre meno. Il Sudafrica va a fuoco, nell’inverno più freddo che si ricordi: è il paradosso delle contraddizioni, e degli opposti, in cui vive il Paese a 31 anni dalla fine dell’apartheid.

Quella esplosa dal 10 luglio è una rivolta violenta come non si vedeva da allora, dicono tutti: in queste proteste, seguite all’arresto dell’ex presidente Jacob Zuma, sono andati in cenere gli alberghi di lusso; i grandi mall delle ricche merci ma anche i supermercati dei poveri; i fast food e i piccoli negozi di alimentari; le banche, i depositi pieni di container dell’import-export e soprattutto posti di lavoro, tanti posti di lavoro. Distrutti 3 mila negozi, 200 imprese, 40.000 attività, per una perdita stimata pari a quasi 20 miliardi di euro, dice il primo bilancio del governo. E 300 morti. Oltre a migliaia di arresti.

Cosa sia successo, se ci sia stata una regia e di chi, è ancora da appurare. Due appaiono le certezze: la prima è che la furia devastatrice è partita dal KwaZulu-Natal, nell’area di Durban, dove la maggioranza è zulu come l’ex presidente finito in carcere per oltraggio alla corte, per non essersi presentato in tribunale in uno dei tanti processi che lo vedono imputato. Poi le violenze si sono allargate al Gauteng, dove si trova Johannesburg, anche lì con una forte presenza zulu.

Qualcuno evoca il tribalismo che persiste nella politica e nella società sudafricana, o forse più semplicemente è la guerra di potere nel partito di maggioranza, l’African national congress (Anc). La seconda certezza è che l’ondata di violenza si è ingrossata pescando tra i più poveri, i più disperati e nulla c’entra il destino personale di Zuma.

Anzi, lui è il più detestato dei presidenti sudafricani, l’emblema della corruzione che ha soffocato la crescita economica e il benessere in cui l’intero popolo liberato credeva. È considerato il traditore numero uno di Nelson Mandela: quando nel 2013 il grande «Madiba» morì, il risentimento per Zuma non si trattenne più. In un clima di disaffezione popolare, nel 2018, dopo falliti impeachment, l’Anc riuscì a farlo dimettere e a sostituirlo con l’attuale presidente Cyril Ramaphosa, che si è ritrovato in eredità una nazione fragile, sull’orlo dell’abisso come non mai.

I numeri sono drammatici: il 60% dei sudafricani vive ancora nelle baracche di latta delle township, 20 metri quadrati senza bagno, senza corrente, senza potersi proteggere dalla criminalità. Il 55% è sotto la soglia di povertà. Il 33% degli adulti e il 46% dei giovani sono senza lavoro.

Poi ci si è messa la pandemia, ora alla terza ondata, con le chiusure, la sanità pubblica allo sfascio, la scarsità di vaccini, e il turismo, fonte del 7% del Pil, praticamente agonizzante. Alla contrazione di un altro 7% dell’economia lo scorso anno ora si somma la previsione di un calo del prodotto interno lordo dello 0,7% a causa dei disordini di metà luglio.

Tra gennaio e aprile 2021 – secondo statistiche ufficiali – risultava disoccupato il 43,2% della popolazione con i giovani, tra 14 e 35 anni, che rappresentano il 59,5% del totale. In più, solo il 10% della popolazione è vaccinato: calmatesi le violenze, per regalare speranza Ramaphosa ha allentato le misure e annunciato che entro fine ottobre arriveranno 31 milioni di dosi Pfizer e Johnson & Johnson. Ma intanto i morti per Covid hanno superato quota 70.000 e la pressione sugli ospedali si fa sentire, con i picchi di occupazione dei letti nel Gauteng al 99,7% nelle strutture pubbliche e all’89% in quelle private.

È stato facile soffiare su questa insoddisfazione profonda, ammantando la rivolta da consenso popolare per coprire invece uno scontro tra due opposte visioni del mondo e del ruolo del Sudafrica, nel mondo. L’obiettivo è proprio Ramaphosa, ex braccio destro di Mandela, figura autorevole sui mercati internazionali, considerato troppo amico dell’Occidente. L’altro fronte è di chi vuole un ritorno alle idee socialiste, una formula astratta che strizza l’occhio alla Cina, in questa guerra fredda del terzo millennio: Zuma ne è il garante e lo ha dimostrato rendendo Pechino l’incontrastato partner commerciale del Paese da 12 anni, con un valore degli scambi arrivato nel primo quadrimestre del 2021 a 21 miliardi di dollari, una crescita dell’export di prodotti agricoli del 28% e investimenti pari a 25 miliardi di dollari che hanno creato 400.000 posti di lavoro diretti e indiretti.

Secondo il centro analitico Cabc dell’Università di Cape Town, nel mese precedente allo scoppio dei disordini 12 account Twitter, di cui quattro riconducibili ai fedeli di Zuma nell’Anc, hanno cinguettato messaggi che incitavano alla rivolta e l’hashtag più diffuso è stato proprio «#freejacobzuma», ovvero liberate Jacob Zuma, producendo alti volumi di traffico. Ma sotto accusa ci sono pure i 37enni figli gemelli dell’ex presidente, Dududane e Duduzile, entrambi in affari nell’impresa dei fratelli indiani Gupta, altro scandalo sulla testa di Zuma.

Anche loro, che smentiscono senza convincere i critici, avrebbero chiamato alla ribellione attraverso i social e in particolare Duduzane, da anni impegnato a costruire la sua candidatura alle presidenziali del 2024. L’arresto di Zuma è stata la scintilla perfetta per ravvivare le braci sotto le ceneri del Paese.

«Bisogna vedere cosa succede, ma difficilmente lui e i suoi sostenitori trarranno vantaggio da ciò che è successo perché il Sudafrica si è unito nella preoccupazione per i danni d’immagine e alle infrastrutture, al tessuto sociale e all’ordine legale molto forte nel Paese» dice Rocco Ronza, docente di geopolitica africana all’Aseri di Milano, la Scuola di economia e relazioni internazionali. Infatti mentre le immagini delle devastazioni facevano il giro del mondo, partiva il tam tam tra cittadini che scendevano nelle strade a protezione dei bersagli della furia.

A Soweto, la più famosa delle township di Johannesburg, il Maponya Mall è ancora in piedi e senza danni grazie al cordone umano pronto a tutto pur di difendere il solo centro commerciale dell’area, con l’unico cinema multisala e i negozi belli come nel resto della città dove passare il tempo lasciandosi alle spalle la distesa di baracche e povertà.

Sono tanti gli esempi di quel «#RebuildSA» (ricostruiamo il Sudafrica) diventato virale e che ha risvegliato invece lo spirito pacifico e solidale dei sudafricani: c’è la 25enne Emelda Masango che si è proposta sui social come volontaria per dare una mano a ripulire le strade, scatenando in poche ore l’emulazione in centinaia di altre persone. E le chiese, le comunità, e addirittura le multinazionali, impegnate a raccogliere e distribuire cibo al posto delle ong – come FoodForward SA – colpite dalle razzie.

Tuttavia è unanime la paura per gli effetti devastanti di queste sommosse su un’economia in caduta libera da decenni, e l’imputato numero uno è proprio Jacob Zuma, la sua ostentata vita da nababbo, le tante mogli e i tanti figli, la forma sistemica di corruzione che ora viene comunemente chiamata «State capture», al vaglio di una specifica commissione d’inchiesta parlamentare oltre che della magistratura. «Ecco come appare uno Stato fallito» titolava il 14 luglio uno dei principali quotidiani nazionali, il Daily Maverick.

Simbolo ne è l’ormai inevitabile appuntamento di ogni inverno con il «load shedding», il contingentamento dell’energia, con i cittadini che dovranno staccare la corrente nelle fasce orarie via via comunicate da Eskom. L’ente energetico sudafricano, un tempo colosso in grado di garantire al Sudafrica l’autosufficienza, da vent’anni sconta l’arretratezza di impianti vecchi, guasti a singhiozzo e un insufficiente piano di riconversione e di investimenti.

Soprattutto, è al centro delle indagini per corruzione che attraversano una storia recente: lo Stato più avanzato del continente africano, con l’economia e le leggi più moderne e occidentali anche di molte potenze occidentali, la Nazione arcobaleno voluta da Mandela come convivenza di popoli, sventando una guerra civile che molti, ancora oggi, continuano ad agitare.

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