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Gli Stati Uniti e tutti i potenziali conflitti

Gli Stati Uniti e tutti i potenziali conflitti

Dall’Ucraina a Taiwan, passando per le regioni balcaniche, gli Stati Uniti stanno riaccendendo tensioni mai davvero sopiti. «Piromani geopolitici» che vengono percepiti come una minaccia da Russia e Cina. E i contraccolpi, soprattutto economici, sarebbero un boomerang per tutto l’Occidente. Proprio come sta avvenendo con le sanzioni contro Mosca.


Il 22 agosto una coppia di B-52 Stratofortress, le «fortezze volanti» americane, bombardieri strategici con capacità nucleari decollati dalla base della Raf inglese a Fairford, hanno sorvolato i Balcani occidentali. La rotta a bassa quota su Skopje, capitale macedone, Tirana, la Croazia, il Montenegro, la Bosnia e il Kosovo, dove hanno spento il tracciamento, è una dimostrazione di forza. Il conflitto globale con la Russia sta riaccendendo anche i focolai dell’ex Jugoslavia. I serbi, protetti storicamente da Mosca, non l’hanno presa bene. I media di Belgrado hanno ricordato che sono gli stessi B-52 che «bombardarono la Serbia nel 1999».

Da Taiwan ai Balcani passando per l’Ucraina e altri fronti di crisi, gli Stati Uniti stanno giocando un ruolo di piromani globali? «L’élite democratica Usa in effetti è incendiaria. E non da oggi. L’intervento in Kosovo è stato voluto da Clinton per non parlare di quello in Libia. Sono piromani geopolitici che hanno incendiato i Balcani, il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Ucraina» sostiene senza mezze misure Marco Bertolini, paracadutista che ha portato le stellette tutta la vita arrivando al grado di generale.

L’ultimo fronte, tornato a surriscaldarsi, è nell’Indo-Pacifico con la visita della speaker del Congresso Usa Nancy Pelosi a Taiwan, vissuta da Pechino come una provocazione senza precedenti. La Cina considera l’isola «ribelle» roba sua da unificare con le buone o con le cattive. Pelosi, carica istituzionale numero tre degli Stati Uniti, doveva andare a Taipei in aprile, ma ha rimandato per problemi di salute. La scelta dei primi di agosto non poteva essere peggiore: «A cavallo delle celebrazioni del 95°anniversario della fondazione dell’esercito cinese e nei giorni in cui la leadership si riuniva nel summit estivo a Beidahe per impostare gli equilibri politici che verranno formalizzati al XX Congresso del Partito, previsto tra ottobre e novembre» ha spiegato Enrico Fardella, direttore del progetto China Med e visiting scholar alla John Cabot University.

Il mandarino comunista Xi Jinping, che al congresso si farà riconfermare altri cinque anni di potere assoluto, ha scatenato per rappresaglia manovre militari che sono le prove generali del blocco aereo navale di Taiwan, primo passo di un’invasione. Il problema è che la visita di Pelosi era solo l’inizio della cosiddetta «diplomazia del Congresso» con tre missioni Usa in meno di un mese. Il 14 agosto è arrivata a Taipei la delegazione bipartisan del Senato guidata dal democratico del Massachusetts Ed Markey. E una settimana dopo si è presentato il governatore dell’Indiana, il repubblicano Eric Holcomb, che nel suo Stato ha una decina di stabilimenti di società taiwanesi leader nella produzione di semiconduttori. Una delocalizzazione, in vista di un’invasione cinese, favorita da una legge Usa con finanziamenti miliardari.

L’impennata delle visite americane ha provocato l’annuncio di missioni parlamentari simili da Canada, Gran Bretagna e pure Giappone, che aumenteranno la tensione con Pechino. «Sia russi sia cinesi hanno il sentore di trovarsi di fronte a una minaccia globale dell’Occidente. Siamo di fronte a un bellicismo senile grazie alla speaker della Camera, 82 anni, e un presidente americano con problemi di salute che ne ha 79. Abbiamo bisogno di risolvere le crisi e non di gettare benzina sul fuoco» sostiene Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi difesa.

Il risultato è che la Cina sta aumentando la pressione militare sull’isola per ribadire la rivendicazione di sovranità. E l’Occidente risponde mostrando i muscoli. Il 29 agosto saranno mobilitati per la prima volta le forze aeree di 6 paesi Nato (Usa, Canada, Gran Bretagna, Francia, Germania e Olanda) nell’esercitazione Pitch black («nero come la pece») assieme a India, Giappone, Australia e altri Stati del Sud-Est asiatico. Fardella osserva che «la mobilitazione militare ha sempre qualcosa di teatrale e talvolta rischia di scivolare dall’operetta alla tragedia. I cambiamenti reali, però, avvengono sul piano economico. La Cina con l’aumento senza precedenti nella fuga di capitali segnala una grave crisi».

Non solo: un confronto militare nello stretto di Taiwan innescherebbe sanzioni economiche da parte dell’Occidente a carico della Cina, che si rivelerebbero un boomerang, come in parte sta accadendo per l’Ucraina. I danni stimati all’economia mondiale supererebbero i 2.600 miliardi di dollari, pari a circa il tre per cento del prodotto interno lordo globale. Gli americani scherzano con il fuoco anche nell’ex Jugoslavia dove il rischio è far riesplodere conflitti etnici alle porte di casa. Il primo settembre potrebbero scoppiare scontri fra serbi e albanesi nel nord del Kosovo se verranno applicati i provvedimenti su carte di identità e targhe del governo di Pristina. Il capo di stato maggiore kosovaro, Blerim Vela, ha accusato il governo serbo di inondare i media di fake news: «Una ripetizione da manuale delle mosse di Putin» in vista dell’invasione dell’Ucraina.

Gli americani mostrano i muscoli con i B-52 e il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, sottolinea la presenza di 4 mila militari sul terreno. «Se la situazione dovesse deteriorare siamo pronti a intervenire» mette in guardia. Della missione Kfor fanno parte anche 852 soldati italiani sulla base del reggimento Piemonte cavalleria. «Se continuiamo a essere proni agli Usa anche nell’ex Jugoslavia si rischia molto» aggiunge Gianandrea Gaiani. «Per evitare di tornare alla guerra alle porte di casa siamo noi che dobbiamo porci come attori principali e trovare soluzioni». L’opposto di ciò che pensano i senatori americani con un’apposita legge «sulla democrazia e la prosperità dei Balcani occidentali», tesa a consolidare ed espandere l’influenza americana e scoraggiare a colpi di sanzioni «attività destabilizzanti» o solo chi non è d’accordo con Washington. Un fiume di dollari punta a rafforzare la sicurezza in Bosnia e Erzegovina e incoraggiare l’integrazione di Albania e Macedonia del nord nella Ue.

Proprio la Bosnia è il secondo focolaio fra le spinte secessioniste del leader dei serbi locali Milorad Dodik e i piani statunitensi di sostituire la Nato con la missione di stabilizzazione europea, che potrebbe essere arrivata al capolinea. Il mandato, che scade in novembre, dovrebbe venire rinnovato dal Consiglio di sicurezza, ma le cancellerie occidentali temono il veto di Russia e Cina.

Radovan Viškovic, premier della Repubblica Srpska (entità serba della Bosnia e Erzegovina) ha accusato il segretario della Nato di non essere «preoccupato per la narrativa guerrafondaia e le frecciate di odio e conflitto che vengono inviate quotidianamente» dalla Federazione (l’altra entità della Bosnia con musulmani e croati). Stoltenberg si agiterebbe «solo per la Repubblica Srpska e una presunta influenza maligna, probabilmente perché riceve gas russo». Dopo sei mesi di guerra in Ucraina i piani di pace sono a zero. Il 23 agosto il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu ha denunciato: «Alcune nazioni della Nato vogliono che la guerra continui. Intendo non solo gli Stati Uniti, ma anche altri Paesi membri europei». Alcune di queste cancellerie, non gli Usa, hanno provato a mettere i bastoni fra le ruote all’accordo sul grano. L’unica trattativa andata a buon fine, che ha già fatto esportare dai porti ucraini 723 mila tonnellate di cereali dirette anche in Italia.

Per il resto la parola pace è tabù su tutti e due i fronti. Gennady Gatilov, rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite a Ginevra, è convinto che le nazioni occidentali «combatteranno fino all’ultimo ucraino». Kiev ha chiesto 16 miliardi di dollari immediati alla comunità internazionale e gli Usa hanno approvato nuovi aiuti militari per 775 milioni di dollari. La Ue potrebbe decidere «una missione di addestramento e assistenza» all’esercito ucraino nei Paesi confinanti sul territorio europeo. Da Mosca il ministro della Difesa Sergei Shoigu replica che «In Europa, la situazione della sicurezza è peggiore rispetto al culmine della Guerra fredda».

La novità arriva dalle critiche oltreoceano all’appoggio incondizionato dell’Occidente all’Ucraina, soprattutto fra i repubblicani. Steve Cortes, ex consigliere del presidente Trump, sul settimanale Newsweek ha firmato un attacco senza precedenti al capo dello Stato ucraino. «Putin è un delinquente e Zelensky un autocrate corrotto. La loro battaglia non coinvolge alcun interesse nazionale vitale degli Stati Uniti» scrive. «L’intervento di Biden danneggia l’America e peggiora la situazione del popolo ucraino divenuto pedina in una battaglia degli oligarchi del Mar Nero. L’America dovrebbe insistere sul dialogo, la negoziazione e la riduzione dell’escalation. Se le parti rifiutano, è tempo per un approccio americano di realismo e moderazione, perché questa semplicemente non è la nostra battaglia e Zelensky sicuramente non è il nostro combattente».

I dubbi sono stati avanzati anche dal grande vecchio della diplomazia americana, Henry Kissinger, che il 14 agosto ha sentenziato: «Siamo sull’orlo della guerra con Russia e Cina su questioni che abbiamo in parte creato, senza alcuna idea di come andrà a finire o a cosa dovrebbe portare».

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