Efficace, aggiornata, apprezzata dai Servizi statunitensi: l’intelligence del Paese nordafricano è un baluardo contro l’eversione di matrice islamica per l’intero continente. E recenti operazioni ne confermano il ruolo strategico anche per prevenire attentati in Europa.
Due del mattino a Béziers, placida regione francese dell’Occitania. È il 4 aprile 2021. Nel quartiere operaio di La Devèze arriva un furgone nero, da cui scendono quattro uomini incappucciati. Sono agenti della Direction générale de la sécurité intérieure (Dgsi) in missione antiterrorismo. Sfondano la porta di un appartamento in cerca di una diciottenne, identificata come «Leila B». Lei è nella sua stanza, dove sulle pareti campeggiano manifesti inequivocabili: diagrammi su come fare esplosivi, alcuni passi del Corano che incitano alla jihad, le Twin Towers in fiamme. E ancora svastiche, il disegno di un soldato nazista e di un boia dell’Isis che tiene in mano una testa decapitata.
Gli agenti trovano anche foto del corpo decapitato di Samuel Paty, il professore «giustiziato» a Parigi lo scorso ottobre da un terrorista ceceno. E un diario dove la ragazza ha annotato: «Mi piace vedere la gente che viene decapitata, mi piace vedere le persone che soffrono, le persone che tagliano le teste, mi piace la morte». Gli investigatori hanno la conferma che cercavano: Leila B è una terrorista e ha pianificato un attacco imminente. Voleva farsi saltare in aria nel giorno di Pasqua all’interno di una chiesa di Montpellier, ma l’intelligence lo ha impedito giusto in tempo. Tutto merito degli investigatori di Parigi? Nient’affatto: il successo è dei servizi segreti del Marocco, che hanno partecipato a un’operazione congiunta grazie al suo corpo d’élite, il General directorate for territorial surveillance (Dgst).
Dello sforzo compiuto dal Marocco in Europa nel contrasto al terrorismo islamista si parla troppo poco. Tuttavia, Rabat da anni gioca un ruolo cruciale nell’antiterrorismo internazionale, a un livello tale che la stessa Fbi e persino la Cia riconoscono impegno e risultati: «Siamo grati per la leadership e l’alto livello di professionalità della Dgsi, nel quadro degli sforzi congiunti per la sicurezza, compresi quelli schierati nella lotta al terrorismo e ai gruppi estremisti» si dichiara da Langley, sede dell’Agenzia. Parole cui fanno eco quelle del capo della sezione di New York dell’Fbi, che ha espresso la sua profonda gratitudine per «le informazioni specifiche che sono state fornite in modo tempestivo e hanno contribuito alla neutralizzazione del pericolo terroristico». Il riferimento non è più a Béziers, ultima di una serie di «missioni compiute» da appuntare al petto. Ma alla proficua attività di scambio informazioni.
Lo sforzo del Marocco in tal senso era iniziato già dopo gli attacchi dell’11 settembre, quando il Paese si schierò senza ambiguità con l’Occidente; impegno che è poi proseguito con gli attentati di Casablanca (11 maggio 2003) fino all’identificazione degli autori della decapitazione di due giovani studentesse europee, la danese Louisa Vesterager Jespersen e la sua amica norvegese Maren Ueland, uccise nel 2018 nei dintorni di Marrakech. Un delitto orrendo, per il quale sono stati assicurati alla giustizia e condannati a morte Abdessamad Ejjoud, capo di un gruppo jihadista reo-confesso, e Younes Ouaziyad, che aveva ripreso la scena della decapitazione. Quell’operazione ha prodotto lo smantellamento di un’intera cellula: una ventina di terroristi, tra i quali anche un ginevrino convertitosi all’Islam.
«La cooperazione internazionale nella lotta contro il terrorismo è uno degli approcci multidimensionali e più completi della strategia del Marocco, soprattutto con i principali partner come Stati Uniti, Francia e Spagna. Il rapporto con gli Usa, in particolare, è forte nei settori dell’intelligence, dove il Paese nordafricano raccoglie informazioni e l’intelligence americana fa appunto formazione e assistenza tecnica per la polizia nazionale e la gendarmeria reale» afferma Maha Ghazi, ricercatrice marocchina su questioni di estremismo nella regione. «Il Marocco è anche attivo al Global counterterrorism forum (Gctf) e ha avuto un ruolo importante nella coalizione globale che ha sconfitto l’Isis».
Ecco spiegato come il Paese sia potuto diventare il principale referente americano per il controllo del jihad africano ed europeo: il governo di sua maestà Mohammed VI ha siglato con Washington una serie di programmi di prevenzione dell’estremismo e di educazione nella società, come la Middle East partnership initiative (Mepi), e ha definito una cornice di impegni con la Nato: Rabat sostiene l’Alleanza atlantica dal 2016, funzionando da «antenna» per le politiche mediterranee e monitorando i traffici illegali dell’area (dal contrabbando di droghe al traffico di armi ed esseri umani). In cambio, riceve anche armamenti: lo scorso anno, per esempio, ha siglato un accordo da 240 milioni di dollari per la fornitura di mezzi pesanti.
È anche intestandosi questo ruolo di baluardo che il Marocco emerge come lo Stato più progredito dell’Africa: «Insieme ai leader di Algeria e Tunisia, questi governi hanno perseguito un percorso comune di modernizzazione, indipendentemente dalla forma di Stato» scrive la ricercatrice della Cattolica di Milano, Majda Mehrar. «Questa strategia politica era principalmente mirata a neutralizzare i movimenti islamisti e a evitare la diffusione di messaggi estremisti». E ha funzionato bene, se si considera che attualmente nelle carceri marocchine, degli oltre 86.000 detenuti complessivi, solo 900 stanno scontando reati connessi al terrorismo (solo 21 nuovi ingressi lo scorso anno).
La stabilità costruita nel tempo dal Paese del Maghreb, e la stessa linea di discendenza di re Mohammed – che si fa risalire direttamente al profeta Maometto – lo hanno dunque salvaguardato da rivolgimenti e guerre intestine connesse al radicalismo. Lo stesso non può dirsi per la vicina Algeria, che lungo gli anni Novanta ha combattuto gruppi locali come il Fis (Fronte islamico di salvezza) e il Gia (Gruppo islamico armato), che miravano a rovesciare il governo nazionale per imporre la sharia, la legge islamica.
È noto che Marocco e Algeria si contendano ancora oggi il dominio sul Sahara occidentale, territorio cruciale dove si agitano le aspirazioni indipendentistiche del popolo Saharawi; ma questo non ha prodotto guerriglie sul modello di Mali e Mauritania. Al contrario, ha rafforzato una cultura istituzionale piuttosto laica e statalista di derivazione francofona, ma con contaminazioni anglosassoni. Cosa che permette, al di qua e al di là dell’Atlantico, di continuare a investire su quello che viene considerato l’interlocutore più affidabile del Nordafrica.