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Il nuovo volto del terrorismo: l’Africa rischia di diventare il cuore economico del jihad

Il nuovo volto del terrorismo: l’Africa rischia di diventare il cuore economico del jihad

Dalle miniere illegali dell’oro alle rotte del contrabbando, dalle tasse parallele in Somalia ai flussi del Lago Ciad: l’Africa non è più periferia del jihad, ma un centro economico capace di generare risorse e, potenzialmente, sostenerne altre cellule nel mondo.

Per molti anni il dibattito sul terrorismo internazionale è stato dominato dall’idea che il cuore economico del jihadismo risiedesse fuori dal continente africano. Dopo l’11 settembre, le intelligence occidentali scoprirono l’esistenza di reti sofisticate attraverso cui flussi di denaro provenienti da benefattori privati, pseudo–organizzazioni caritatevoli e intermediari situati soprattutto nel Golfo raggiungevano al-Qaeda e i suoi affiliati. Il ricorso a corrieri fidati, a canali paralleli di trasferimento e a triangolazioni bancarie sempre più complesse costituiva allora la norma e l’attenzione degli apparati investigativi si concentrava nel tentativo di intercettare la provenienza dei fondi e chiudere quei rubinetti.

In Africa, tuttavia, la dinamica è stata radicalmente diversa. Come spiega a Panorama.it l’analista ghanese Fidel Amakye Owusu che ieri ha partecipato ad una lezione del Master “TERRORISMO, PREVENZIONE DELLA RADICALIZZAZIONE EVERSIVA, SICUREZZA E CYBERSECURITY. Politiche per l’integrazione interreligiosa e interculturale e per la deradicalizzazione”, presso l’Università Aldo Moro di Bari: «A differenza delle cellule nate tra Afghanistan, Pakistan, Iraq e Yemen, i gruppi attivi nel Sahel, nel bacino del Lago Ciad, nella Repubblica Democratica del Congo e nelle aree più instabili dell’Africa orientale e meridionale hanno trovato nei propri territori tutto ciò di cui avevano bisogno per sostenersi. L’assenza di controllo statale, l’enorme disponibilità di risorse naturali e la compresenza di rotte commerciali illegali hanno reso superfluo il ricorso a finanziatori esterni. Il continente si è trasformato così in una piattaforma in cui il terrorismo non solo si alimenta da sé, ma sviluppa economie parallele capaci di competere, in termini di stabilità e continuazione dei flussi, con quelle che fino a ieri provenivano dal Medio Oriente».

Il caso del Sahel rappresenta il passaggio più emblematico. Alla fine degli anni Duemila, i resti della guerra civile algerina, riuniti sotto la sigla al-Qaeda nel Maghreb Islamico, avevano già compreso quanto fosse redditizio il controllo delle rotte trans-sahariane. Il traffico di sigarette e i rapimenti a scopo di riscatto costituivano allora la principale fonte di sostentamento. Con il crollo del Mali nel 2012 e il progressivo indebolimento istituzionale di Niger e Burkina Faso, il quadro si è però ampliato fino a trasformarsi in un sistema autarchico. La ricchezza aurifera della regione ha fatto il resto. Le miniere artigianali, spesso al di fuori di qualsiasi normativa, hanno permesso al JNIM, alleato di al-Qaeda, di instaurare un rapporto diretto con le comunità locali: protezione armata in cambio di oro. È un meccanismo semplice e devastante che ha reso il Sahel uno dei più grandi bacini di auto-finanziamento del terrorismo contemporaneo. Secondo stime ONU, solo in Mali il flusso non tracciato del metallo prezioso viene stimato in decine di tonnellate l’anno, quantità che alimentano mercati paralleli e si trasformano rapidamente in denaro contante, armi e capacità logistica.

Un’evoluzione analoga si osserva nel bacino del Lago Ciad, dove Boko Haram e la provincia dell’Africa Occidentale dello Stato Islamico hanno costruito un’economia fondata sul controllo dei movimenti di merci, persone e attività produttive. L’area lacustre, frammentata e disseminata di isolotti, è diventata un crocevia ideale per il commercio irregolare di carburante, animali, prodotti agricoli e beni di consumo. Chi opera, transita o commercia nella regione si ritrova inevitabilmente soggetto a pedaggi imposti dai gruppi armati che gestiscono le vie d’accesso. Il risultato è un flusso costante di risorse che garantisce la sopravvivenza delle organizzazioni anche nei momenti di massima pressione militare.

In Africa centrale, la provincia dello Stato Islamico attiva tra Repubblica Democratica del Congo e Uganda ha trovato nel caos endemico della regione un terreno perfetto per imporre la propria presenza. Le ricchezze minerarie del Paese, la proliferazione delle miniere illegali e l’incapacità dello Stato di controllare vaste porzioni di territorio hanno permesso agli insorti di inserirsi nei circuiti del commercio del coltan, dell’oro e del legname pregiato. L’ingerenza del gruppo in queste economie informali è talmente radicata da rendere impossibile distinguere, in molte aree, dove finiscono le attività criminali e dove iniziano quelle strettamente terroristiche.

Anche l’Africa orientale e meridionale non fanno eccezione. In Mozambico, la filiale locale di al-Shabaab ha colto le opportunità offerte dallo sviluppo dell’industria del gas a Cabo Delgado. Rapimenti, sabotaggi e ricatti rappresentano una forma di pressione che si traduce in entrate economiche regolari, mentre in Somalia al-Shabaab ha realizzato uno dei sistemi fiscali paralleli più efficienti del continente, imponendo tasse su commercianti, imprese, trasportatori e perfino sui raccolti agricoli. Nel Sinai settentrionale, la combinazione di attività terroristiche e contrabbando transfrontaliero con la Striscia di Gaza ha generato una rete di profitti difficilmente quantificabili ma determinanti per la sopravvivenza delle milizie. In Libia, infine, la tratta di esseri umani continua a rappresentare una delle principali fonti di reddito per gruppi estremisti e bande criminali che operano in modo sempre più integrato.

La prospettiva  che secondo Fidel Amakye Owusu emerge da questa mappa, è chiara: «Il terrorismo africano non è più un destinatario passivo di fondi esterni, ma un attore capace di generare autonomamente ricchezze considerevoli. È una trasformazione profonda che potrebbe avere conseguenze globali. La capacità di produrre denaro in modo continuativo, sfruttando risorse difficili da monitorare e operando in contesti dove lo Stato è assente o incapace di reagire, permette ai gruppi africani di assumere un ruolo inedito nello scacchiere internazionale. È sempre più plausibile che possano contribuire a sostenere finanziariamente altre cellule fuori dal continente, invertendo così un paradigma che è rimasto valido per due decenni». In un mondo in cui il terrorismo cambia forma e geografia, l’Africa si sta imponendo come un nuovo centro di gravità economica del jihad. Non solo teatro di conflitti, ma generatore di capitali. Non solo terra di reclutamento, ma possibile finanziatore di altre insorgenze globali. Una dinamica che rende ancora più urgente comprendere come le economie criminali si intreccino con quelle terroristiche e come queste ultime siano ormai diventate parte strutturale della destabilizzazione del continente e delle sue proiezioni oltre confine.

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