Tra i soldati del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray combattono tantissimi bambini, spediti in prima linea contro l’esercito nazionale. Ma su questo, organizzazioni non governative come Amnesty tacciono. Perché sono notizie che «danno fastidio» alla causa dei ribelli
«Stavo camminando per strada quando mi hanno caricato su un camion pieno di altri giovani. Ci hanno detto che dovevamo andare a combattere». Yerusalem è una dei giovanissimi tigrini reclutati con la forza dai combattenti del Tplf (Tigray people’s liberation front) e mandati allo sbaraglio contro il nemico. Mentre consegna la sua testimonianza a una tv etiope locale, trattiene a fatica le lacrime.
Alcuni minori hanno poco più di 10 anni, tengono lo sguardo fisso nel vuoto. I ribelli del Tigray, la regione nel nord dell’Etiopia che da mesi è in lotta con il governo centrale, la usano come tecnica bellica: spingere avanti ondate di civili e giovanissimi per spiazzare l’avversario.
Le immagini dei minori vengono pubblicate per la prima volta dal New York Times lo scorso 12 luglio, e si direbbe che la notizia che insieme ai ribelli combattono «bambini soldato» venga data involontariamente: l’articolo non è di denuncia ma ha toni piuttosto celebrativi. «Giovani risorse altamente motivate» li definisce il corrispondente Declan Walsh e riportando il racconto entusiastico di un comandante del Tplf spiega che la causa dei ribelli sta richiamando «migliaia di giovani, in jeans e scarpe da tennis».
Le foto diventano subito un caso. L’utilizzo dei minori è un crimine di guerra perseguibile dalla Corte Penale internazionale, e in seguito alle polemiche il quotidiano rimuove la foto. La notizia però ormai è uscita e il 14 luglio anche l’Associated Press diffonde il video di una giovane di 16 anni che dichiara: «Sono qui per combattere».
In parallelo, però, succede qualcosa che ha dell’incredibile. Nonostante le testimonianze si moltiplichino su social e media locali, il tema non verrà più toccato. Silenzio generale dagli organi di stampa e soprattutto da parte di Ong come Amnesty e Human Rights Watch che da mesi seguono attentamente la crisi in Tigray.
«Ne siamo al corrente» risponde a Panorama il portavoce di Amnesty in Italia Riccardo Noury. «Stiamo facendo accertamenti ma sono resi complicati dalla difficoltà di accedere al territorio. Non siamo in grado di fare indagini per verificare queste notizie».
Eppure la distanza dai luoghi del conflitto non ha certo impedito alla Ong di realizzare svariati report di accusa contro l’esercito federale etiope e le truppe alleate eritree con modalità di dubbia attendibilità. Da quello sul presunto massacro presso la cattedrale di Axum all’ultimo pubblicato l’11 agosto su presunte violenze sessuali perpetrate contro le donne tigrine: in entrambi i casi i report si basano solo su testimonianze raccolte per telefono e a distanza. Precisamente tra gli etiopi fuggiti nei campi profughi in Sudan, dove nei mesi scorsi hanno trovato rifugio anche due mila Samri, giovani combattenti del Tplf, quindi non certo voci imparziali.
I report però fanno il giro del mondo. Inspiegabilmente, grande risonanza viene data anche ad altri eventi tutt’altro che verificati. I primi di agosto alcune agenzie internazionali danno la notizia di 50 corpi ritrovati nella zona di Humera. Secondo fonti anonime, il massacro sarebbe stato commesso dall’esercito etiope. Nel giro di pochi minuti, la notizia conquista l’attenzione del direttore dell’Oms e membro del Tplf Tedros Adhanom Ghebreyesus, della responsabile di UsaAid Samantha Power e della dirigente di crisi di Amnesty Joanne Mariner, che la rilancia via social. Al contrario, nonostante l’ampia documentazione fotografica, la notizia dei minori tra le fila dei ribelli non ottiene nemmeno lo spazio di un retweet.
Per trovare ulteriori riscontri non occorre andare lontano. Lo scorso novembre, poco prima del conflitto, era stato lo stesso leader del Tplf Debretsion Gebremichael ad annunciare in un video diretto alla popolazione che ci sarebbe stata «una guerra popolare e tutti avrebbero dovuto farne parte, a cominciare dai bambini».
Lo ammette su Twitter anche Meaza Gidey, attivista e supporter della causa del TPLF che, rivolgendosi ai suoi follower, chiede di «non postare foto di soldati circondati da bambini e civili perché potrebbero essere usate come prove» e così facendo «si rischia di danneggiare la nostra battaglia».
Ma, a oggi, le Ong sembrano dare voce solo alle accuse che fanno comodo alla causa dei ribelli con un doppiopesismo che riflette quello dell’amministrazione americana. Incalzato dalle domande di un giornalista che chiedeva quale fosse la posizione dalla Casa Bianca in merito al rifiuto da parte del Tplf di accettare la tregua e sull’utilizzo dei bambini soldato, lo scorso 5 agosto il portavoce del Dipartimento di Stato americano Ned Price faceva esercizio di diplomazia. «Gli Stati Uniti tengono in considerazione queste notizie e chiedono a entrambe le parti in conflitto di attenersi alle leggi internazionali».
Dunque nessuna denuncia diretta contro i ribelli mentre indirettamente viene chiamato in causa anche l’Esercito di difesa nazionale (Endf) nonostante sia uscito dal Tigray da più di un mese, quando optò per una tregua per permettere ai contadini di procedere con il raccolto.Scelta a cui i ribelli invece volteranno le spalle estendendo il conflitto alle regioni circostanti. Eppure, nonostante gli scontri abbiano provocato 300 mila sfollati, migliaia di vittime tra i civili e la presa di Lalibela, città patrimonio dell’Unesco, le reazioni da parte della comunità internazionale sono state a dir poco flebili, specialmente da parte degli stessi che da mesi, dal segretario di Stato americano Tony Blinken all’alto rappresentante Ue Josep Borrell, hanno continuato a dare ampio spazio alle denunce contro il governo etiope, considerato l’artefice di indicibili genocidi e accusato di utilizzare la fame come strumento di guerra. Affermazioni spesso smentite dai fatti, dato che i camion del World food program non hanno mai smesso di entrare in Tigray.
Un atteggiamento sbilanciato che certo non facilita il processo di pace e ormai rasenta la propaganda. Lo scorso 16 luglio, Amnesty mette a punto un altro report contro Addis Abeba. Questa volta la denuncia è su «arresti arbitrari» nei confronti di civili che parlano tigrino, a suggerire l’ennesima presunta operazione di pulizia etnica. A prova di quanto raccontato, pubblica la foto di un poliziotto che perquisisce alcuni cittadini, ma dopo poche ore succede l’imprevisto. L’autore dello scatto, il fotoreporter Amanuel Sileshi, rivela che la scena in realtà riguardava normali controlli di sicurezza eseguiti ai seggi elettorali.
Inutile dire che il clima sia sempre più teso. Il governo etiope ha sospeso tre Ong, tra cui il team olandese di Medici Senza Frontiere e il Norwegian Refugee Council, ritenute responsabili di diffondere disinformazione sui social e di aver importato senza autorizzazione telefoni satellitari poi utilizzati per scopi illegali.
Oltre che sul campo, la battaglia pare ormai combattersi sul piano della comunicazione e forse anche per questo, in un appello di rara intensità con cui lo scorso 10 agosto ha di fatto rotto la tregua, il premier Abiy Ahmed ha invitato la nazione a restare unita e a non cedere alle provocazioni.