I diritti calpestati e l’opposizione perseguitata. Ma le violente manifestazioni nel Paese contestano soprattutto la corruzione del regime teocratico e una crisi economica che nega il futuro a 80 milioni di abitanti.
«L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo…». Così cantava nel 1980 Franco Battiato, a pochi mesi dalla rivoluzione khomeinista che fece dell’Iran una Repubblica Islamica oscurantista e che, spodestando lo scià di Persia Mohammad Reza Pahlavi, impose la Sharia nel Paese e fece dell’Iran un modello dittatoriale che sarebbe poi stato replicato tanto nel mondo sciita quanto in quello sunnita.
L’incipit di Up Patriots to Arms («alle armi, patrioti!») racchiude – strano ma vero per una canzone – il senso della forzatura attraverso la quale la casta del clero sciita si è imposta su una nazione in realtà multietnica e multiconfessionale. Laddove c’erano una società e una giurisdizione laica, adesso il diritto del clero sciita esercita il pieno potere politico. Se lo scià aveva avvicinato l’Iran all’Occidente e promosso riforme come il suffragio femminile e il divorzio, Khomeini annullò lo sforzo di modernizzazione e, tra le altre cose, relegò la donna all’ambito domestico. Da allora, nel Paese il sesso femminile è penalizzato da un feroce maschilismo che connota l’Islam radicale.
Anche per questo è morta la giovane studentessa Mahsa Amini, rea di non aver indossato correttamente il velo in pubblico. Dopo che il suo arresto da parte della «polizia morale» si è trasformato in tragedia, scontri e rivolte di piazza si sono estese a tutte le 31 province iraniane. Un episodio inedito e un precedente pericoloso, che ha fatto emergere in tutta la sua drammaticità la frattura tra il popolo e il regime.
A guidare la rivolta ci sono coloro che a Teheran chiamano ormai «i ragazzi e le ragazze degli anni Ottanta», ovvero la generazione dei nati attorno all’anno 1380. No, non è un refuso, ma è il corrispondente del calendario iraniano, secondo il quale siamo nel 1401. È una generazione (il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni) senza le sovrastrutture retrograde, cresciuta con smartphone e Internet – per quanto sotto il controllo della censura – e aperta alle riforme. Di certo, i giovani iraniani sono più acculturati e inclini all’opposizione di chi li ha preceduti. E proprio per questo sono finiti nel mirino dei Guardiani della Rivoluzione, il cui conservatorismo e la cui forzata applicazione della Sharia sono dal 1979 gli strumenti chiave per il controllo sugli oltre 80 milioni di abitanti.
Eppure oggi gli ayatollah sembrano temere anche le più piccole contestazioni. Il motivo? Fino a pochi anni fa era impensabile che i sudditi di una teocrazia contestassero un diritto che si vorrebbe divino, dove la parola della Guida Suprema (ieri Ruhollah Khomeini, oggi Ali Khamenei) era legge incontestabile. Ma la crisi economica – dovuta alle sanzioni dell’Occidente ma anche all’incompetenza e alla cattiva gestione da parte dei Pasdaran della cosa pubblica – ha rotto gli equilibri, e ormai non sono più solo gli studenti a chiedere innovazioni radicali.
I Pasdaran, un corpo all’origine paramilitare per la difesa delle istituzioni islamiche, col tempo hanno occupato ogni spazio dell’amministrazione centrale. Oggi vige un sistema basato su prebende e corruttele, niente a che vedere con la corretta gestione dei fondamentali macroeconomici. Vince il privilegio di chi ritiene che le immense riserve di idrocarburi, assieme al pugno di ferro, siano sufficienti a mantenere lo status quo. Tuttavia, molti fattori concorrono a erodere queste certezze: il cambiamento climatico ha rivelato le carenze delle infrastrutture idriche nazionali e i problemi di siccità in molte zone rurali. Inoltre l’inflazione, secondo i dati diffusi dal Centro statistico iraniano, ha raggiunto il 54 per cento su base annua e, nel settore alimentare, con punte del 90 per cento.
Secondo la Beef Production and Distribution Union, infatti, le vendite di carne bovina sono scese del 20 per cento, mentre il capo della Food Industry Federation ha affermato che il fatturato dell’industria alimentare è calato della metà, in particolare per la frutta, il cui consumo tra la popolazione era altissimo un tempo. «Con l’aumento dei prezzi» ha riferito Asadollah Kargar, capo dell’Associazione dei venditori di frutta e verdura, «molte famiglie sono costrette a comprare solo gli scarti indutriali».
Secondo Shahin Modarres del centro studi Itss di Verona, inoltre, «a causa di anni di pessima gestione, sanzioni ed estrema corruzione, la situazione economica in Iran è devastante. Per il Fondo monetario internazionale quasi un terzo degli iraniani vive sotto la soglia di povertà assoluta, e quasi il 70 per cento sotto la soglia di quella relativa. Significa non poter beneficiare nemmeno dei mezzi più elementari per cibo e alloggio».
Su tutto ciò, aleggia lo spettro di una crisi energetica senza precedenti. Con la seconda più grande riserva di gas naturale al mondo, l’Iran potrebbe essere (e si è candidato a esserlo) un fornitore di energia per l’Europa, ma le esportazioni di gas sono frenate dalla crescente domanda interna. Ammette il portavoce del ministero degli Esteri Nasser Kanaani: «Le sanzioni americane hanno causato problemi tecnici nella produzione di gas negli ultimi anni, ma li stiamo risolvendo».
Secondo il quotidiano (quasi) indipendente Shargh, le carenze di gas e di energia elettrica sono già costate alle imprese iraniane miliardi di dollari in perdite nel biennio 2021-2022. Un calo del 15 per cento almeno, che ha messo in ginocchio il comparto industriale. Complice la decisione del governo di non ridurre quest’anno le forniture alle case private – consuetudine della precedente amministrazione – ma di privare invece le sole industrie di elettricità nei mesi estivi e di gas in inverno.
Una scelta che ai più è parsa scellerata, e ha già comportato per esempio lo stop di non pochi impianti dell’industria siderurgica), rimasti inattivi negli ultimi 15 mesi; un settore che, peraltro, ha una forte vocazione all’export, penalizzato al pari del settore petrolchimico, non meno energivoro. Così, gli ayatollah sono stati costretti a importare energia elettrica dagli Stati vicini, con aumenti di oltre il 50 per cento nel periodo estivo rispetto allo scorso anno, mentre le esportazioni sono diminuite del 60 per cento.
Ecco anche cosa si cela dietro le proteste di piazza che infiammano il Paese e, nel Kurdistan iraniano, hanno già visto scontri armati e assalti ai palazzi del potere. Come accaduto a Oshnavieh, città di confine nella regione dell’Azarbaijan occidentale, dove i manifestanti hanno tenuto per ore il palazzo del governo in ostaggio, prima che le forze di sicurezza lo liberassero nuovamente. Ed ecco anche perché il mancato rinnovo dell’accordo sul nucleare – concordato nel 2015 tra Iran, Ue e i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, poi interrotto dall’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca – fa temere a buon diritto per il futuro socio-economico della Repubblica Islamica. Non tutti credono però che il negoziato sia su un binario morto. Tra questi, Colin Clarke del Soufan Center di New York, che a Panorama dice: «Più il regime userà la violenza contro i manifestanti, più difficile sarà per gli Stati Uniti e i loro partner europei concordare qualsiasi cosa con Teheran. Né di certo gli alleati di Teheran, Mosca o Pechino, possono essere considerati abbastanza affidabili in questa fase da svolgere un ruolo attivo nel salvataggio del regime».