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La Cina ci spia, già all’Università

La Cina ci spia, già all’Università

Ha tentato di fare shopping di società strategiche italiane. Ora la Cina entra nelle università e nei centri di ricerca attivi su importanti innovazioni tecnologiche, grazie a partnership e finanziamenti. Arrivando ad accordi con aziende controllate da Pechino. «Una situazione preoccupante» rivelano gli 007 a Panorama, ma abbiamo poche difese.


In passato infiltravano qualcuno nei laboratori e in segreto sottraevano formule e brevetti, oggi entrano dalla porta principale e si fanno anche tanta pubblicità grazie alle scoperte scientifiche delle nostre università». Così spiega un analista dell’intelligence italiana applicato a un dossier molto particolare: minacce legate all’evoluzione tecnologica di tipo predatorio speculativo. Le relazioni dell’Aise, il servizio segreto che si occupa della minaccia estera, puntano dritte verso il Dragone. In sostanza, dopo aver tentato di fare shopping tra le aziende italiane, i cinesi hanno messo piede pure nelle università e nei centri di ricerca. I settori: intelligenza artificiale, idrogeno, energia, nanotecnologie. E non solo. Gli infiltrati stanno «ficcando il naso» in tutto ciò che può essere utile alla strategia militare e industriale statale di Pechino. Tanto che di recente, in due casi, il governo è stato costretto a ricorrere al Golden power per impedire l’acquisizione di due società ritenute strategiche: la prima produce droni militari a Pordenone, la seconda sviluppa robotica a Novara.

A preoccupare particolarmente l’intelligence italiana, da qualche tempo è un altro settore, strettamente connesso a quello industriale: la ricerca universitaria e parauniversitaria. Si è scoperto che atenei e laboratori avanzati stringono accordi con aziende, università e Research Centres cinesi. E se in alcuni casi si tratta di legami tra atenei italiani e istituti cinesi per reciproci scambi culturali, in altri, ed è questo l’aspetto più allarmante, le relazioni si traducono in accordi di collaborazione tra aziende straniere, spesso sottoposte al controllo statale, e atenei italiani. «A fronte del finanziamento delle attività di ricerca erogato da parte del partner privato» segnala l’intelligence «ci si espone al concreto rischio di una sottrazione di tecnologia e know how». E il tutto avviene alla luce del sole. Con tanto di comunicati stampa o lanci di agenzia che pubblicizzano le scoperte. Alcune delle informative del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, sono finite al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. E anche qui la questione non è apparsa affatto semplice: «È risultato crescente l’interesse da parte di attori statali stranieri, in particolare cinesi, nei confronti del mondo accademico italiano, in special modo per quegli ambiti nei quali più avanzata risulta l’attività di ricerca da questi condotta».

Le motivazioni: «Tale condizione» spiegano dal Copasir «è spesso favorita dalla diffusa carenza di fondi da destinare alla ricerca sofferta dalle università italiane». E questo approccio «rischia di costituire una sorta di Cavallo di Troia in grado di aggirare i paletti fissati dal golden power rispetto alla penetrazione in alcuni settori industriali strategici». Uno scudo di difesa legislativo l’Italia ancora non lo possiede. Come l’Europa, dove si stima che tremila ricerche tecnologiche siano state sviluppate in collaborazione con scienziati legati all’esercito cinese. E l’unica protezione, per ora, è demandata all’attività di raccolta di informazioni messa in campo dagli 007. Basta fare una breve ricerca tra le notizie sui legami universitari con entità del Dragone per accorgersi dove Pechino è già arrivata.

A Pisa, per esempio, si progettano reti neurali artificiali a basso impatto energetico, con tanto di pubblicazione su Nature machine intelligence, autorevole rivista del gruppo Nature. Tra i protagonisti della ricerca c’è un ricercatore del dipartimento di Informatica dell’ateneo pisano, unico italiano circondato da un team di studiosi delle più importanti università cinesi e di Hong Kong. A Trieste invece si sono concentrati su un processo innovativo di trasformazione delle biomasse in vettori organici liquidi di idrogeno. Anche in questo caso lo studio è finito su riviste internazionali, tra le quali Joule. I triestini sono riusciti a produrre materiali fotocatalitici in grado di utilizzare efficacemente la luce solare per trasformare le biomasse in vettori organici liquidi di idrogeno come acido formico e aldeide formica, molecole che possono essere poi facilmente trasformate in idrogeno. E la ricerca, fanno sapere dall’università triestina, è stata «sostenuta da finanziamenti pubblici italiani e cinesi con il supporto del sincrotrone francese Soleil» ed è frutto di una collaborazione internazionale tra Dalian institute of chemical physics, Chinese academy of sciences, Università di Trieste, Consorzio Interuniversitario nazionale per la Scienza e la tecnologia dei materiali e Istituto Iccom-Cnr, e dal Soleil. Ma gli intrecci non si fermano alle sole ricerche mirate. Sono stati anche scritti dei protocolli. L’Università di Catania nel 2018 ha sottoscritto un accordo quadro «per la promozione di reciproci scambi nel campo della ricerca e della didattica» con la cinese Henan University of Urban construction. E Trento, sempre nel 2019, ha firmato un accordo simile tre lo Zhuhai College della Jilin University e il Dipartimento di ingegneria e scienza dell’informazione. A Napoli i cinesi sono entrati nella Città della scienza. Ma l’elenco è lungo. «E la situazione è sempre più preoccupante», mettono in guardia gli 007.

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