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I padroni delle terre rare

I padroni delle terre rare

Cambiano alleanze e pesi sullo scacchiere globale: oltre a Stati Uniti e Cina, si fanno largo nuovi Paesi-frontiera che estraggono minerali meno diffusi e meno noti. Una geografia delle materie del futuro analizzata in un report inedito. Panorama l’ha letto in esclusiva.


Anche la remota Mongolia è entrata nel «Grande gioco» delle terre rare: il 26 giugno scorso il governo americano ha firmato un memorandum d’intesa con il Paese asiatico «per far avanzare congiuntamente catene di approvvigionamento minerarie critiche sicure e resilienti nella regione indo-pacifica». Pochi giorni dopo, il 15 luglio, il Giappone ha avviato una collaborazione con l’Arabia Saudita per realizzare investimenti congiunti nella ricerca e nello sfruttamento di giacimenti di terre rare. Nel frattempo Tokyo ha acquistato per 133 milioni di dollari una partecipazione nella principale azienda australiana del settore, la Lynas Rare Earth, che coprirà il 30 per cento del fabbisogno giapponese. E in giugno l’Unione europea ha adottato un regolamento per garantirsi forniture sicure di materie prime «critiche», incentivando il contributo di quelle provenienti agli Stati dell’Unione e limitando le importazioni. Decisione simile a quella presa da Washington.

C’è molto movimento sullo scacchiere delle materie prime, in particolare quelle fondamentali per alimentare la transizione energetica. E a muovere le proprie pedine sono soprattutto i Paesi del fronte occidentale, che stanno cercando di liberarsi dalla pericolosa dipendenza dalla Cina costruendo una fitta rete di accordi internazionali. Ma sarà un lavoro lungo e difficile, perché il predominio di Pechino in molti minerali strategici è fortissimo. Basta scorrere i dati raccolti da Wilma Vergi, economista della direzione Studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, nel report «I nuovi minerali industriali e le terre rare» per rendersi conto dei rischi che stanno corredo le economie più industrializzate.

Lo studio, che Panorama ha letto in esclusiva, mostra nelle prime pagine un elenco di metalli e materiali utilizzati per realizzare manufatti a elevato contenuto tecnologico, dall’elettronica all’energia, dalla difesa alla farmaceutica, spesso utilizzati in miscele o composti di più elementi. Ecco quelli dove la Cina compare come leader mondiale, con quote che oscillano tra il 31 e il 98 per cento sulla produzione globale: alluminio, antimonio, bismuto, cadmio, fluorite, gallio, grafite, indio, magnesio, tellurio, selenio, silicio, stagno, titanio, tungsteno, zinco. Per molte altre materie prime, come il litio, Pechino è al secondo o al terzo posto. Se poi i cinesi non hanno il predominio nella produzione di un certo materiale critico, trovano il modo per procurarselo indirettamente. È il caso del cobalto, indispensabile per la costruzione di batterie. Come scrive Vergi, «circa la metà delle riserve mondiali di questo minerale si trovano nella Repubblica democratica del Congo che detiene una quota mondiale di produzione di cobalto pari a circa il 70 per cento, con un tasso di crescita composto annuo di circa il 20 per cento dal 1995 al 2020, grazie agli importanti investimenti delle aziende cinesi a partire dalla metà degli anni Duemila.

La domanda mondiale di cobalto per la realizzazione di batterie è aumentata ventisei volte nei primi vent’anni di questo secolo, mentre la produzione cinese di cobalto raffinato è cresciuta di settantotto volte. Le estrazioni di questo minerale nella Rdc erano pari a circa 11 mila tonnellate nel 2000, quantitativo che ha però raggiunto le 98 mila tonnellate nel 2020, destinate in prevalenza alle aziende cinesi». C’è poi il settore delle terre rare, cioè di quei 17 elementi che non sono in realtà scarsi ma che sono difficili da identificare e da estrarre. Hanno nomi stravaganti, come Erbio, Gadolinio, Lutezio o Ittrio, e sono utilizzati nell’alta tecnologia: dall’energia verde alla difesa, dallo spazio all’automotive, dalla robotica all’elettronica più avanzata. Il problema è che delle 300 mila tonnellate di terre rare prodotte nel 2022, circa 210 mila, il 70 per cento, arriva dalla Cina. Il secondo produttore, gli Stati Uniti, segue a grande distanza con una quota del 14,3 per cento. Anche sul fronte delle riserve Pechino è al primo posto, con una quota del 33,8 per cento sul totale mondiale. «Sia per quanto riguarda l’estrazione che la successiva lavorazione, la Cina risulta essere in assoluto il Paese più competitivo in termini di costi» sottolinea il report di Intesa Sanpaolo, «mentre l’Australia è la più efficiente nelle infrastrutture, che di fatto sono uno degli elementi trainanti per migliorare la competitività del comparto delle terre rare».

Una situazione molto delicata per l’industria europea e occidentale: «In Europa» si legge ancora nello studio «il giacimento più importante si trova nella regione di Kiruna in Svezia, altri sono ubicati in Groenlandia, in Norvegia e in Finlandia. Depositi minori sono stati rilevati in Grecia e in Serbia. Attualmente però non vi sono estrazioni attive in tutto il continente europeo. La miniera svedese dovrebbe disporre di una riserva di terre rare per circa 1,3 milioni di tonnellate, ma la loro estrazione non avverrebbe prima di una decina d’anni».

Per riconquistare il terreno perduto molti Paesi hanno introdotto negli ultimi anni iniziative specifiche per tutelare il mercato interno e potenziare l’industria legata alla trasformazione delle terre rare. Già dal 2008 la Russia ha vietato investimenti stranieri nello sviluppo e nella produzione di metalli e leghe speciali e nel 2020 ha destinato 1,5 miliardi di dollari di investimenti in undici nuovi progetti con l’obiettivo di arrivare all’indipendenza dalle importazioni entro il 2025. L’Australia ha pubblicato nel 2019 un elenco di 24 minerali chiave per lo sviluppo tecnologico e ha definito una serie di nuove politiche nazionali al fine di sostenere la competitività dell’industria delle terre rare e massimizzare l’utilizzo della ricchezza di queste risorse. Gli Stati Uniti con il Restoring Essential Energy and Security Holdings Onshore for Rare Earths Act del gennaio 2022 hanno «introdotto disposizioni per la creazione di una riserva strategica di terre rare entro il 2025, al fine di soddisfare la domanda da parte dei settori industriali e tecnologici delle forze armate in caso di interruzione delle forniture per un anno».

Gli occhi delle potenze occidentali sono puntati anche sull’Africa, ricca di giacimenti di minerali e di metalli utilizzati nell’industria avanzata. E così gli Usa hanno avviato negoziati a partire dal 2019 con il Malawi ed il Burundi per realizzare alcuni progetti estrattivi al fine di garantirsi la fornitura di materie prime. «Anche l’Unione Europea» ricorda Vergi «ha dichiarato che è disposta a fornire collaborazioni con le nazioni africane per garantirsi forniture costanti, analogamente ad Australia e Giappone, già presenti nel continente africano con imprese minerarie». Intanto, però, la Cina sta cercando di acquisire nuove licenze estrattive in tutta l’Africa offrendo in cambio investimenti infrastrutturali e finanziamenti. Il Grande gioco continua.

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