Home » Attualità » Economia » Il cliente online ora può far saltare una banca

Il cliente online ora può far saltare una banca

Il cliente online ora può far saltare una banca

I recenti fallimenti di istituti americani e la vicenda di Credit Suisse insegna che, oltre ai problemi di gestione interna, il settore del credito deve fare i conti con la velocità imposta dal digitale.


E tre: dopo i fallimenti di Silicon Valley Bank e Signature Bank un’altra banca americana, la First Republic di San Francisco, 14esima per dimensioni negli Usa, è stata travolta dalla fuga dei depositi ed è arrivata al capolinea. Dall’altra parte dell’Atlantico il Credit Suisse è finito in crisi e ha dovuto buttare nella spazzatura 167 anni di storia, finendo tra le braccia della rivale Ubs. E mentre le autorità di controllo recitano il solito mea culpa, sullo sfondo la Deutsche Bank resta un’osservata speciale da parte degli analisti, non del tutto convinti sul suo piano di risanamento.

Memori della tempesta che ha devastato i mercati finanziari nel 2008, i risparmiatori guardano con ansia i segnali provenienti dal mondo bancario, ben consapevoli che se questo ingranaggio si inceppa è tutta l’economia a bloccarsi. C’è dunque da preoccuparsi? Un nuovo contagio sta per infettare il sistema creditizio? Per rispondere a queste domande ci siamo rivolti a Elena Carletti, professore ordinaria di Finanza e prorettrice alla ricerca dell’Università Bocconi, dove guida l’unità Banking, Finance and Regulation del Centro Baffri Carefin Centre for Applied Research, nonché past president dell’European Finance Association. La sua opinione è che non siamo alla vigilia di un altro 2008: le difficoltà delle banche americane sono circoscritte e non c’entrano molto con il Credit Suisse. C’è però un filo rosso che lega queste crisi e desta non poche preoccupazioni: la velocità della reazione dei clienti, accelerata a dismisura delle nuove tecnologie digitali.

«Non vedo grandi ombre all’orizzonte per il sistema europeo» esordisce Carletti. «Sicuramente c’è un cambiamento dell’ambiente in cui le banche operano, dovuto agli aumenti repentini dei tassi decisi dalle autorità monetarie e alla fine della liquidità abbondante. Ci sono istituzioni che avevano un modello di business profittevole con un costo del denaro basso e non si sono adeguate rapidamente al nuovo scenario. Ma va considerato che il sistema americano è diverso da quello europeo e inoltre va diviso tra banche grandi e banche più piccole: nel 2018 il governo Usa ha deciso di non applicare più le regole di “Basilea 3” agli istituti con dimensioni degli attivi tra i 50 e i 250 milioni di dollari e in particolare sono state rese non più obbligatorie le due regole sullla liquidità che, quando applicate, impediscono casi come quelli della Silicon Valley Bank, dove troppi depositi erano a vista e non assicurati, e quindi ritirabili in ogni momento, mentre metà degli attivi erano investiti in titoli garantiti dallo Stato a lunga scadenza e a tasso fisso». Questa pericolosa differenza di scadenze tra attivo e passivo, che ha determinato la crisi della Silicon e anche della First Republic, non si può verificare nelle banche americane più grandi e in Europa, proprio grazie alle regole di «Basilea 3». Anzi, a ben vedere le grandi banche non stanno affatto male: JP Morgan & Chase, Wells Fargo e Citigroup hanno riportato risultati finanziari del primo trimestre superiori alle attese degli analisti, in Italia gli istituti di credito hanno messo a segno un balzo degli utili superiore al 70 per cento mentre sia Intesa Sanpaolo sia Unicredit hanno approvato i miglior bilanci nel 2022 degli ultimi decenni. Del resto, nel 2022 quello bancario è stato uno dei settori più profittevoli.

«Non dimentichiamo che l’aumento dei tassi ha portato a un innalzamento dei margini e degli utili delle grandi banche, che possono prestare denaro a interessi più alti senza far salire altrettanto la remunerazione dei depositi. Questo meccanismo funziona meglio se la banca ha molti clienti piccoli, che non hanno la forza di chiedere tassi più alti, mentre funziona meno se la clientela è formata da aziende». Poi le banche europee godono di un altro vantaggio rispetto a quelle americane: in queste ultime un calo dei tassi provoca lo spostamento dei risparmi dai depositi verso i fondi di investimento che sono fuori dal sistema bancario, mentre in Europa si investe nei fondi tramite le banche e i soldi restano all’interno del sistema. Allora perché il Credit Suisse è affondato? «La sua crisi non è stata originata dall’aumento dei tassi, ma risale al passato, quando i suoi manager hanno effettuato degli investimenti molto speculativi e molto concentrati: per esempio i 10 miliardi nel fondo Greensill che è fallito lasciando nella banca svizzera un buco di oltre due miliardi di dollari. Il Credit Suisse è un caso di mancanza di risk management, di carenze di controlli interni, a cui si sono aggiunti alcuni scandali e vari cambiamenti ai vertici».

La scintilla della crisi è stata la dichiarazione degli investitori sauditi che non avrebbero sottoscritto una ricapitalizzazione dell’istituto elvetico, dopo la pubblicazione in ritardo, per irregolarità contabili, dei dati finanziari del 2022 che mostravano ancora una perdita. Così la speculazione si è scatenata contro il titolo della banca mentre i risparmiatori hanno iniziato a scappare: «Si è persa la fiducia» sottolinea Carletti «e se manca la fiducia, nel sistema bancario manca tutto». Anche Deutsche Bank ha subito un improvviso crollo del titolo in borsa pur avendo annunciato i più elevati profitti da dieci anni. «Il caso della banca tedesca è molto interessante: i suoi manager hanno realizzato un efficace piano di ristrutturazione ma il mercato dei cds, i credit default swap che coprono dal rischio di credito di un emittente, in questo momento è poco liquido e piccoli movimenti di acquisti o vendite possono provocare grandi variazioni dei prezzi. Alcuni fondi americani hanno speculato sui cds legati alla Deutsche Bank provocando un crollo del titolo e ciò rivela quali danni può provocare un mercato nervoso».

Sia nel caso svizzero che in quello americano, le autorità di controllo, la Finma e la Federal Reserve, sono finite sott’accusa. «Ci si potrebbe aspettare che i supervisori intervengano più rapidamente, almeno in teoria. Ma nella pratica agire in una banca non è semplice. Per esempio, il Credit Suisse aveva un piano di ristrutturazione: se non ci fossero stati Silicon Valley Bank e il nervosismo sui mercati forse la banca svizzera nel giro di qualche anno sarebbe tornata un’istituzione forte. Ma non c’è stato il tempo».

Già, il tempo. Se non si intravede il pericolo di un contagio nel sistema bancario globale, perché la «malattia» che ha infettato alcuni istituti americani è molto locale, c’è però una lezione che unisce i crolli statunitensi al caso Credit Suisse: la facilità con cui i clienti possono chiudere i conti. «La digitalizzazione e i social media» spiega la professoressa della Bocconi «espongono le banche a possibili ritiri di depositi molto rapidi. Non dimentichiamo che il crollo della Silicon è iniziato con un tweet. L’amplificazione delle notizie tramite i social media insieme al fatto che i depositanti possono usare i telefoni per ritirare i propri soldi in ogni momento, 24 ore su 24, fa sì che la velocità aumenti in modo drammatico. Il problema è che le regole non tengono ancora conto di questo grande cambiamento: le regole di Basilea, per esempio, dicono che una banca deve avere abbastanza attivi liquidi per far fronte a ritiri su 30 giorni. Ma non sono certo questi i tempi che abbiamo visto nel caso della Silicon Valley Bank».

Oltre a doversi abituare a uno scenario dove la velocità dei comportamenti dei clienti è estremamente più rapida che in passato, gli istituti dovranno anche tornare ad operare in un mondo di tassi «normali». «Siamo usciti da un periodo anomalo: in un sistema sano, in un’economia che cresce, non ci dovrebbero essere tassi di interesse addirittura negativi come abbiamo visto negli ultimi anni, ma dovrebbe piuttosto esserci un’inflazione intorno al due per cento e tassi positivi. Se dovessi fare una previsione, direi che il costo del denaro in Europa potrebbe mantenersi su livelli elevati fino a quando l’inflazione non avrà imboccato un percorso di decrescita». Tornando alla situazione del credito, ora gli occhi saranno puntati sui risultati trimestrali ed è probabile che le notizie saranno ancora positive: «È importante che la comunicazione dei risultati da parte delle banche ristabilisca un clima di ottimismo nei mercati, ancora molto nervosi. Qual è, dunque, la cosa che mi preoccupa di più? Proprio l’emergere di eventi che possano minare la fiducia».

© Riproduzione Riservata